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martedì, Aprile 30, 2024

Da “ndruppecà” a “musera”, Ischia celebra la Giornata dei dialetti

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Oggi l’Unione nazionale delle Pro Loco invitava a riflettere sulla salvaguardia delle lingue locali. Lo avete fatto?

Pasquale Raicaldo | Resiste, stoico, nell’era della globalizzazione linguistica. Rivelandosi un prezioso strumento, in grado di veicolare le emozioni (dall’esaltazione alla rabbia, un caleidoscopio di colorite espressioni alle quali attingere) e di indicare, meglio della lingua ufficiale, utensili e riti contadini. Quelli ai quali l’isola sembra voler tornare, assecondando un proficuo recupero della sua identità.
E nella giornata che, su spinta propulsiva dell’Unione Nazionale delle Pro Loco d’Italia, celebra i dialetti del Bel Paese, specchio fedele di comunità più o meno minuscole, di borghi incantati ma anche di città passionali, come la dirimpettaia Napoli o Palermo, la nostra isola gonfia orgogliosa il petto. Del resto, non è un mistero che questo scoglio si sia nei secoli rivelato terreno fertile per una serie di varietà dialettali (fino a un massimo di sette) e che, malgrado le contaminazioni linguistiche della lingua madre, il cosiddetto vernacolo goda oggi di buona salute.
Tutelarlo e salvaguardarlo, del resto, è un imperativo categorico per una realtà che voglia custodire intatta la sua identità, di cui certo il dialetto è una fetta consistente. E allora continuiamo a parlarlo, al bar e allo stadio, al supermercato e soprattutto in famiglia, dove si rivela spesso un efficace collante intergenerazionale. Annullando il divario tra nonni e nipoti, avvicinando come d’incanto novantenni e quattordicenni, con gli uni che raccontano a gli altri un po’ di quel che erano, usando la lingua che è quasi naturalmente deputata all’aneddoto. Siamo, in fondo, anche un po’ fortunati: con il suo gigantesco bagaglio lessicale, che certo risente delle variazioni fonetiche legate al nostro complesso territorio (Forio e Serrara Fontana, in particolare, hanno conservato intatte alcune caratteristiche, che rendono i loro dialetti unici), il napoletano è una risorsa infinita. Alla quale attingere, copiosamente, per sottolineare, stigmatizzare, raccontare, insultare, apostrofare, ricordare, nominare. Già, nominare: i soprannomi, che ancora compaiono singolarmente e originalmente nei manifesti mortuari dei nostri cari, ci ricordano che la lingua è stata ed è anche un infallibile modo per ordinare la realtà, ivi comprese genìe e famiglie.
E smesso del tutto quell’atteggiamento radical chic che s’era – ahinoi – tradotto nel “diktat” delle maestre isolane agli allievi, costretti ad evitare a prescindere la parola dialettale e non – piuttosto – a considerarla un’opportunità in più nell’esprimersi, Ischia sembra oggi finalmente convinta dell’opportunità di erigere solide barriere difensive attorno alla lingua del popolo.
Una convinzione confermata dal corso di dialetto foriano, che l’ottima Barbara Pierini propone – per il secondo anno consecutivo – nella sua “Libereria”, ma anche nella recente valorizzazione – grazie anche alla sensibilità di Luciano Castaldi – del poeta e scrittore foriano Giovanni Verde. E certo del nostro dialetto è stato strenuo ed intelligente cantore anche Domenico Di Meglio, fondatore del giornalismo locale e persuaso dall’idea che l’espressività di alcuni vocaboli dialettali rendessero assai meglio l’idea rispetto a potenziali sinonimi italiani. I ladri diventano così “mariuoli”, il palazzo decadente è per definizione “sgarrupato”, l’immondizia è – chiaramente – “monnezza”.
E dunque abbiamo tutte le carte in regola per festeggiare, oggi, raccogliendo personalmente l’invito dell’Unione nazionale delle Pro loco d’Italia (che i nostri amministratori hanno bellamente ignorato) E riflettendo sulle modalità con le quali tutelare i nostri in dialetto. In Italia si parlano tra i 6 mila e gli 8 mila dialetti, quasi uno per ogni Comune, ma sono le lingue locali di 2.800 borghi piccolissimi quelle più a rischio: lo spopolamento demografico si sta portando via un autentico patrimonio culturale.
L’allarme – più al Nord che al Sud – c’è e si sente, amplificato in queste ore dall’appello dell’Unpli, che celebra la IV edizione della Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali. «Ci sono 2.800 borghi più piccoli – ha spiegato il presidente dell’Unpli Claudio Nardocci – che rischiano lo spopolamento, anche culturale. E’ un vero campanello di allarme per tutto quel patrimonio culturale definito immateriale e dell’umanità dall’Unesco. Un patrimonio che un tempo veniva tramandato oralmente, da nonni ai figli ai nipoti, e che oggi non si trasmette più e che si perde ogni volta che un anziano se ne va. C’è un patrimonio culturale enorme, legato anche alla biodiversità, che sta scomparendo molto velocemente perché tutto si omogenizza e si cerca di uniformare».
Verissimo. Eppure, il “de profundis” – sull’isola – è lontano: nell’ambito di una tesi di laurea discussa all’Università degli Studi di Torino, chi scrive approfondì – tra l’altro – proprio la vitalità del dialetto. E i risultati, che – malgrado siano trascorsi sette anni – paiono ancora validi, fotografarono una realtà incoraggiante per il nostro vernacolo. Dei 250 intervistati, un campione rappresentativo della nostra isola, il 20% dichiarò addirittura di parlare solo dialetto in famiglia, mentre il 27% ammise di far ricorso più al dialetto che all’italiano (sempre con i familiari). Solo il 20% negò di usare il dialetto nei dialoghi a casa.
Certo, oggi le sette varietà dialettali ischitane individuate a fine ‘800 paiono convergere in un unico dialetto, che risente evidentemente delle contaminazioni dell’italiano. Ma – ancorché in salita – la strada del dialetto è ancora lunga. Meglio accussì, no?

Foto Oscar Pantalone

1 COMMENT

  1. Buonasera a tutti.Giusto per informare che anche quest’anno l’Associazione Giochi di Natale, (di cui sono vicepresidente) edita per la XIV volta un concorso nazionale di Poesia in cui sono previsti premi per la sezione dialettale, ottenenendo un vasto successo. Lo fa con la convinzione che il dialetto vada iscritto tra le specie protette, pechè ha la funzione storica di congiungere passato al futuro senza perdere il legame con il presente.Vocaboli a volte immediati e intraducibili rendono al meglio il discorso chiosando stati d’animo e sentimento che spesso in lingua ufficiale non trovano collocazione.Non mi dilungo in esempi ma vi invito a leggere, oltre lo stimatissimo Verde, anche Giovanni Maltese, Luigi Polito e i tanti altri autori nostrani. Un sentito grazie a Pasquale Raicaldo.
    Luigi Castaldi

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