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lunedì, Maggio 6, 2024

Il Comune di Lacco Ameno lo accusa di abusivismo, ma sbaglia!

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All’appellante era stata notificata una ordinanza di demolizione e successivamente applicata la sanzione pecuniaria per inottemperanza qualificandolo come committente dei lavori per la realizzazione dell’abitazione donata alla figlia. Opere peraltro eseguite «in epoca non recente». Invece il responsabile era il padre, deceduto da diversi anni

Il solito “pasticcio”! Ancora una volta gli uffici comunali – in questo caso di Lacco Ameno – si sono resi responsabili di un errore. Notificando una ordinanza di demolizione e applicando poi la sanzione pecuniaria per inottemperanza a un soggetto assolutamente “innocente”, in quanto non era né il proprietario, né il committente dei lavori abusivi. Per la verità nemmeno il Tar si era accorto dell’errore, respingendo il ricorso presentato dall’interessato. Per sua fortuna è arrivata la sentenza del Consiglio di Stato che ha ristabilito la verità, riformando la pronuncia dei giudici di primo grado. Il Comune di Lacco Ameno si era costituito solo innanzi al Tar.

Una vicenda resa complicata appunto dagli errori commessi, che il collegio così riassume: «A seguito di un accesso effettuato il 7 marzo 2016, in collaborazione con personale del Comando di Polizia Urbana, per verificare natura e consistenza delle opere edilizie realizzate nella proprietà della signora (figlia dell’appellante, ndr) in località San Montano del Comune di Lacco Ameno, in zona sottoposta a vincolo d’interesse archeologico, paesaggistico, idrogeologico e sismico, il tecnico incaricato relazionava agli uffici competenti che “Dalle risultanze del sopralluogo esperito si è rilevato che, in epoca non recente, sono state eseguite opere di ristrutturazione di vecchia baracca in lamiere in modo da ricavare un fabbricato, adibito a civile abitazione, avente una superficie di circa mq. 39,00 ed un’altezza di circa mt. 3,20 il tutto pari ad un volume di circa mc. 124,80”, oltre altre opere (parapetto in muratura a delimitazione del lastrico solare; manufatto per impianti tecnologici; pavimentazione in conglomerato cementizio dell’area circostante per una superficie di circa mq. 89,00)».

L’ISTANZA DI CONDONO DEL 1986
Inoltre lo stesso tecnico «segnalava che dalla consultazione degli atti d’ufficio risultava che tutte le dette opere erano prive di titolo abilitativo e che in data 11 agosto 1986 risultava acquisita istanza di condono edilizio», come si vedrà a firma del padre dell’appellante, «relativa a una unità residenziale avente diversa consistenza, precisamente per una superficie utile abitabile di mq. 31,51 e un volume totale di mc. 107,47».

Di conseguenza «il responsabile dell’Area tecnica adottava l’ordinanza del 29 marzo 2016 per ingiungere la demolizione delle predette opere e il ripristino dello stato dei luoghi alla signora identificata come proprietaria dell’immobile, e di colui identificato come committente dei lavori.
Il 2 agosto 2016 l’ente locale accertava l’esecuzione parziale dell’ordine di demolizione, stante l’avvenuta demolizione del parapetto sul lastrico solare, del manufatto per impianti tecnologici e della pavimentazione dell’area circostante, ma non del fabbricato di mq. 39».
Scattava quindi la seconda ordinanza a novembre 2018, con cui il Comune «irrogava alla proprietaria e al ricorrente la sanzione pecuniaria di euro 20.000 per la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione del manufatto di mq. 39,00».

LE CENSURE NON ESAMINATE
Le ordinanze venivano impugnate dal “terzo” chiamato in causa con ricorso principale e con motivi aggiunti in relazione alla ingiunzione di pagamento. Ma il Tar come detto «giudicava infondato il ricorso principale e riteneva i motivi aggiunti, oltre che infondati per le stesse ragioni addotte per il rigetto del ricorso principale, altresì “inammissibili per decorrenza del termine di impugnazione, con riguardo in particolare alla censura (nuova) relativa alla omessa valutazione della domanda di condono, siccome diretta a contestare la legittimità della presupposta ordinanza di demolizione”».
Di qui l’appello, fondato su quattro censure, non tutte esaminate dal Consiglio di Stato, in quanto quella sulla estraneità del ricorrente è risultata dirimente nei suoi confronti.

Innanzitutto si contestava al Tar di non aver «considerato che il manufatto formava oggetto di domanda di condono ancora pendente, circostanza che consentiva di eseguire su di esso interventi di manutenzione straordinaria non comportanti aumenti di volume e superficie e che gli interventi eseguiti, consistenti in opere interne e manutentive, erano prive di rilevanza paesaggistica; che fuor di dubbio era la corrispondenza, in termini planovolumetrici, delle opere sanzionate con quelle oggetto dell’istanza di sanatoria, la cui pendenza era causa di sospensione del procedimento sanzionatorio amministrativo; che il motivo aggiunto concernente l’avvenuta presentazione della domanda di condono e il correlato regime sospensivo doveva ritenersi ammissibile rappresentando una apprezzabile ragione a sostegno delle domande già proposte».

Inoltre i giudici di primo grado avrebbero sbagliato nel ritenere non necessaria la comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio, «che viceversa si imponeva a garanzia del giusto procedimento in una fattispecie, quale quella in questione, in cui i fatti erano tutt’altro che pacifici e incontestati».
Inoltre, «contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, il Comune non ha assolto l’obbligo motivazionale, mancando nell’ordine di demolizione qualsiasi precisazione in merito ai contenuti concreti e ai riferimenti indispensabili alla situazione reale dei luoghi e non spiegandovisi quale fosse l’interesse pubblico tutelato».

LE CIRCOSTANZE IGNORATE DAL TAR
Tutte censure alla legittimità dei provvedimenti che non sono state analizzate nel merito, come detto, alla luce della quarta che evidenzia l’errore marchiano in cui era incorso il Comune: «Il Tar ha errato, infine, nel ritenere che “il provvedimento è stato correttamente indirizzato alla proprietaria del manufatto in virtù di atto di donazione del 2012 oltreché al di lei padre, odierno ricorrente nonché donante”, omettendo di considerare che l’odierno appellante, pur essendo il donante, non è l’autore dell’intervento contestato, il quale, come dimostrato dall’istanza di condono, è invece il dante causa dell’appellante medesimo».

Circostanza sufficiente per ritenere l’appello fondato, limitatamente alla posizione del ricorrente.
Infatti il collegio della Seconda Sezione spiega: «Dev’essere esaminata per prima la questione della pretesa estraneità dell’appellante all’opera abusiva, che integra una censura preliminare di difetto di legittimazione passiva del medesimo all’ingiunzione di demolizione e di conseguente illegittimità della sanzione pecuniaria di euro 20.000 irrogatagli per mancata ottemperanza alla stessa».

Nella sentenza si descrive chiaramente la reale situazione “sfuggita” al Tar: «La questione era stata originariamente posta nel quarto motivo del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, rubricato “eccesso di potere – travisamento dei fatti”, in cui il ricorrente aveva sostenuto di non essere né il proprietario, né l’esecutore materiale, né il committente dei lavori, adombrando che il Comune avesse voluto coinvolgerlo per ovviare a presunte difficoltà di notifica del provvedimento alla proprietaria del bene (sua figlia, a cui aveva donato l’immobile nel 2012) e diffondendosi nell’illustrare il contenuto dei documenti, in primis quelli relativi all’istanza di sanatoria edilizia, che dimostrerebbero che la responsabilità dell’abuso era riconducibile al padre del ricorrente, deceduto da diversi decenni.
Il motivo è richiamato nel ricorso per motivi aggiunti proposto innanzi al Tar avverso l’ingiunzione di pagamento della sanzione pecuniaria».

GLI ATTI DEL COMUNE
E si evidenzia: «L’ordinanza di demolizione, come in precedenza detto, oltre che alla proprietaria dell’immobile è stata indirizzata al ricorrente in qualità di committente dei lavori.
Nel preambolo del provvedimento tale circostanza è ricondotta alla segnalazione effettuata il 15 marzo 2016 dalla Polizia urbana, senza però fornire alcuna precisazione a suo riguardo, mentre la relazione dei Servizi tecnici del 14 marzo 2016 di cui si è detto tace del tutto sul ruolo dell’appellante e discorre, anzi, di “opere edilizie realizzate dalla Sig.na”».

Bacchettando ulteriormente gli uffici comunali: «Nel giudizio di primo grado, inoltre, il Comune resistente (non costituito nel presente grado) non si è preoccupato di contestare il motivo sull’estraneità del ricorrente ai fatti, nonostante fosse prodotta agli atti di causa copia dell’atto di donazione con cui nel 2012 quest’ultimo aveva trasferito in capo alla figlia la proprietà immobiliare e spettasse al Comune medesimo la dimostrazione della sua allegata qualità di committente dell’abuso».

Il collegio non manca di porre in evidenza anche l’errore dei colleghi di primo grado: «Malgrado ciò, il Tar ha ritenuto il provvedimento “correttamente indirizzato alla sig.ra proprietaria del manufatto in virtù di atto di donazione del 2012 oltreché al di lei padre, odierno ricorrente nonché donante”, obliando l’effettivo contenuto della censura appena esaminata.
Invece, in mancanza della prova della qualità di committente dell’abuso in capo al ricorrente avrebbe dovuto riconoscere la carenza di legittimazione del ricorrente a essere destinatario dell’ordine di demolizione e la conseguente illegittimità della sanzione pecuniaria irrogatagli per l’inottemperanza a quell’ordine».

SANCITA L’ESTRANEITA’ ALL’ABUSO
Ne discende «la fondatezza del quarto motivo di appello e delle corrispondenti censure articolate in primo grado, cui va attribuita portata assorbente perché, una volta riconosciuta l’estraneità dell’appellante rispetto all’abuso e, quindi, al potere repressivo dell’Amministrazione, non residua alcun suo interesse concreto all’accertamento che le opere contestate fossero ascrivibili a sua figlia ovvero a suo padre o all’esame delle altre censure rivolte al provvedimento demolitorio e all’ordinanza d’irrogazione di sanzione pecuniaria».

Accolto l’appello, «in conseguente riforma della sentenza appellata, il ricorso introduttivo e i motivi aggiunti di primo grado devono essere accolti e, per l’effetto, i provvedimenti impugnati in primo grado devono essere annullati nei limiti dell’interesse del ricorrente: l’ordinanza del 29 marzo 2016 limitatamente alla parte in cui l’ordine di demolizione delle opere e di ripristino dello stato dei luoghi è rivolto anche al ricorrente e l’ordinanza del 13 novembre 2018 limitatamente all’irrogazione della sanzione pecuniaria al medesimo entrambe ferme per il resto».

In parole povere, il Consiglio di Stato non si è espresso sulla legittimità di quella ordinanza di demolizione e della successiva sanzione irrogata, che restano “affari” della figlia dell’appellante. E’ stato ritenuto sufficiente dichiarare l’estraneità agli abusi di quest’ultimo. Le spese del doppio grado di giudizio sono state interamente compensate, «in considerazione della peculiarità delle questioni esaminate». Di peculiare ci sono certamente i gravi errori commessi dal Comune di Lacco Ameno e la “disattenzione” del Tar…

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