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mercoledì, Maggio 1, 2024

Contro i lavori della vicina un ricorso e due appelli inutili. Non c’erano abusi! Il Consiglio di Stato ha scritto la parola fine al lungo contenzioso

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Così come già sentenziato dal Tar, i giudici di primo grado hanno legittimato le decisioni adottate dal Comune di Casamicciola, che aveva ritenuta corretta la SCIA presentata dalla confinante e non aveva rilevato difformità. Inoltre l’impugnazione era tardiva e non forniva alcuna prova delle accuse mosse e del danno subito

La immancabile lite tra vicini per opere ritenute abusive ha prodotto un ricorso al Tar e ben due appelli al Consiglio di Stato. I giudici di secondo grado hanno definitivamente chiuso la questione ritenendo corretta la prima sentenza e legittimando l’operato del Comune di Casamicciola, che non aveva rilevato gli abusi contestati.

Il primo appello contestava la sentenza sfavorevole che riteneva inammissibile il ricorso «per carenza di legittimazione ad agire non risultando dimostrate, in aggiunta alla vicinitas, l’attualità e la concretezza del pregiudizio asseritamente subito in virtù delle opere oggetto della controversia».

Il ricorso impugnava la SCIA del 2018 presentata dalla controinteressata, l’autorizzazione paesaggistica ed ulteriori atti connessi, «in relazione ad interventi asseritamente illegittimi». Riferendo «di dimorare in un’abitazione di proprietà confinante con l’immobile oggetto della controversia che ella occupa senza poter deambulare per problemi di salute e di aver avuto piena conoscenza degli atti amministrativi oggetto dell’originaria impugnazione solo nel novembre 2020».

Eccependo che il Tar «avrebbe erroneamente ritenuto legittima l’autorizzazione paesaggistica rilasciata alla controinteressata per l’esecuzione di un intervento che avrebbe dovuto essere qualificato quale “ristrutturazione edilizia” e non “manutenzione straordinaria”, dal momento che gli artt. 6 e 7 del PTP (Piano territoriale paesistico) consentirebbero la sola manutenzione straordinaria (e non, per l’appunto, la ristrutturazione) degli edifici preesistenti al 1945».

Inoltre «il giudice di prime cure avrebbe valorizzato esclusivamente le tesi difensive della controinteressata circa la risalenza del manufatto e la sua originaria collocazione al di fuori del centro abitato, senza tenere asseritamente conto della documentazione e delle “deduzioni” della ricorrente». Richiedendo pertanto una serie di verificazioni.

Sui tempi dell’impugnazione, «il Tar avrebbe erroneamente ritenuto inammissibile l’istanza del 12 novembre 2020 ritenendo che si fossero consumati i termini per l’inibizione della SCIA e per l’annullamento in autotutela essendo decorsi oltre 18 mesi dall’autorizzazione paesaggistica; la ricorrente sostiene di aver proposto ricorso tempestivamente avendo ricevuto copia del provvedimento in data 4 novembre 2021, solo allora avendo piena cognizione del provvedimento amministrativo ed essendo quindi in condizione di formulare i relativi motivi di impugnazione».

Contestando inoltre che «la formazione del silenzio assenso della Soprintendenza presuppone una richiesta di organi della P.A. e non, come sarebbe avvenuto nel caso di specie, da parte di un privato».

IL SECONDO APPELLO

Nel secondo appello si specifica che la sentenza di primo grado «avrebbe del tutto omesso di considerare che la ricorrente non avrebbe potuto desumere dalla tabella apposta in sito in relazione ai lavori oggetto della controversia i dati della SCIA e dell’autorizzazione paesaggistica, che non sarebbero stati asseritamente leggibili; il cartello, inoltre, non avrebbe contenuto i dati dell’autorizzazione paesaggistica medesima; non vi sarebbe inoltre prova dell’installazione di detta tabella in data 3 gennaio 2020, né dell’effettivo inizio dei lavori nei giorni immediatamente successivi».

Ancora, il Tar «avrebbe erroneamente ritenuto legittimi gli interventi eseguiti ignorando le tesi della ricorrente».

L’appellante evidenziava anche che le opere eseguite avrebbero alterato le caratteristiche planovolumetriche. E che ai fini della formazione del silenzio assenso da parte della Soprintendenza sarebbe stata necessaria l’indizione di una conferenza di servizi.

AFFERMAZIONI GENERICHE

Riuniti i due appelli, il Consiglio di Stato li ha respinti.

Condividendo il giudizio del Tar e ribadendo che «la signora si è limitata con l’atto di appello a riproporre una serie di doglianze già proposte in primo grado ma nulla di specifico ha dedotto, a ben vedere, in relazione allo specifico pregiudizio che deriverebbe alla sua proprietà dagli interventi eseguiti sul manufatto della controinteressata, limitandosi sul punto ad affermare in modo estremamente generico nella parte dell’appello dedicata all’esposizione del fatto, peraltro senza fornire alcuno specifico principio di prova, che detto pregiudizio sarebbe da individuarsi nell’asserita violazione delle distanze legali che sarebbe derivata per effetto delle opere realizzate dalla controinteressata, nonché a lamentare nel contesto di uno dei motivi d’appello innanzi richiamati, senza tuttavia fornire anche in questo caso adeguati principi di prova, l’asserita compromissione della veduta panoramica della sua proprietà».

Analizzando il secondo appello, è arrivata la dichiarazione di infondatezza di tutte le censure. Ritenendo innanzitutto non necessaria la nomina di un verificatore.

Quindi il collegio ricorda che il Tar ha ritenuto «in parte inammissibile il ricorso introduttivo dalla medesima proposto in primo grado nella parte in cui si chiedeva l’annullamento della SCIA, in quanto atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata, come da consolidato orientamento giurisprudenziale, e delle relazioni che a loro volta costituiscono meri atti di parte; irricevibile per tardività il ricorso medesimo nella parte relativa all’impugnazione dell’autorizzazione paesaggistica, dal momento che il gravame era stato notificato solo in data 4 gennaio 2021, mentre l’inizio dei lavori risaliva a pochi giorni dopo la comunicazione di inizio degli stessi resa all’amministrazione il 3 gennaio 2020, e ciò anche in considerazione del fatto che sul posto e in modo ben visibile all’esterno era stato apposto, secondo quanto prescritto dalla legge, il cartello di cantiere, dal quale era possibile ricavare ogni utile indicazione circa la natura dell’intervento e i titoli che lo supportavano». Tenendo anche conto che l’appellante «risiede nella medesima via dove insiste il fabbricato interessato dai lavori oggetto della controversia e aveva quindi avuto la possibilità di rendersi conto del tipo di intervento che si stava realizzando fin dalle prime settimane dell’intervento, mentre la richiesta di accesso veniva presentata solo in data 26 agosto 2020 e quindi dopo oltre sette mesi dall’inizio dei lavori e dall’apposizione del previsto cartello di cantiere».

Quanto alla diffida, «il Comune, con atto del 28 aprile 2021, ha medio tempore dato espresso riscontro a tale istanza, rigettandola per le ragioni ivi esplicitate».

GLI ACCERTAMENTI DELL’UTC

L’Ente si era attivato, come riportato in sentenza: «Dall’esame degli atti di causa emerge che il Comune di Casamicciola Terme, a seguito dell’istanza dell’appellante 2020, già in data 19 novembre 2020 aveva avviato il relativo procedimento amministrativo, invitando la controinteressata a comprovare la legittimità urbanistica del suo immobile». Quindi l’Utc aveva eseguito una serie di accertamenti, «concludendo il procedimento con la declaratoria di insussistenza dei presupposti per l’adozione dei provvedimenti inibitori/repressivi e con il conseguente rigetto dell’istanza formulata dalla ricorrente con la segnalazione/diffida».

Lo stato dell’immobile era stato ritenuto legittimo «e nei connessi approfondimenti documentali, non era emersa alcuna conferma circa la sussistenza delle porzioni asseritamente abusive o difformi segnalate». Risultava che «gli interventi edilizi in questione non avevano comportato né aumenti di volumetria né modifiche sostanziali tali da portare a un organismo edilizio in tutto o in parte differente da quello esistente e che, in ogni caso, le modifiche apportate, coerentemente con quanto, hanno riguardato modifiche interne senza alcuna alterazione dell’edificio e della destinazione d’uso».

L’AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA

La sentenza del Tar era corretta anche «in ordine alla parziale tardività del ricorso con riferimento all’autorizzazione paesaggistica, dal momento che, come da risultanze in atti, il gravame era stato notificato “solo in data 4 gennaio 2021, mentre l’inizio dei lavori risale a pochi giorni dopo la comunicazione di inizio degli stessi resa all’amministrazione il 3 gennaio 2020 e, sul posto e in modo ben visibile dall’esterno, era stato apposto, secondo quanto prescritto dalla legge, il cartello di cantiere”».

Richiamando la giurisprudenza «secondo cui la “piena conoscenza” dei provvedimenti riguardanti l’attività edilizia posta in essere da soggetti terzi ai fini del computo del termine per la proposizione del ricorso “non si identifica con la conoscenza ‘integrale’ del provvedimento, comprensiva degli atti endoprocedimentali i cui vizi possono ripercuotersi in via derivata sullo stesso: è infatti sufficiente la percezione dell’esistenza dello stesso e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della propria sfera giuridica, in modo da concretizzare l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso».

Specificando i diversi casi in cui viene individuata la “piena conoscenza” e che «la vicinitas di un soggetto rispetto all’area e alle opere edilizie contestate, oltre ad incidere sull’interesse ad agire, induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza della loro entità anche prima della conclusione dei lavori e comunque chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio ha l’onere di esercitare sollecitamente l’accesso documentale».

Questo in quanto «se per un verso non v’è dubbio che siano meritevoli di tutela gli interessi del vicino che subisce uno specifico pregiudizio in relazione ad un intervento edilizio ritenuto illegittimo, per altro verso il principio di certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che non si possa lasciare il soggetto titolare di un titolo edilizio nell’incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole misura, poiché, nelle more, il ritardo dell’impugnazione si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all’ulteriore avanzamento dei lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati illegittimi».

Ebbene, «nel caso all’esame, come condivisibilmente rilevato dal giudice di prime cure, la ricorrente ha richiesto l’accesso agli atti dopo oltre sette mesi dall’inizio dei lavori e dalla possibilità di rendersi conto del tipo di intervento in corso di realizzazione, ed il ricorso è stato notificato il 4 gennaio 2021, vale a dire a distanza di circa un anno dall’inizio delle opere».

Il collegio esclude anche «la lamentata violazione delle distanze minime previste dal PRG del Comune di Casamicciola Terme».

Gli uffici comunali hanno lavorato bene: «Considerato tutto quanto sopra esposto, quindi, il Comune legittimamente ha ritenuto che non sussistessero i presupposti per l’esercizio dei poteri inibitori/repressivi, sollecitati dalla signora in riferimento alla SCIA e agli interventi in questione, poteri che erano subordinati al rispetto delle condizioni previste dalla legge n. 241 del 1990 per l’annullamento in autotutela, essendo comunque già ampiamente spirato il termine per l’esercizio da parte del Comune degli ordinari poteri inibitori della SCIA».

Infine, in base alle precedenti conclusioni, «non può condividersi la tesi di parte appellante secondo la quale non potrebbe ritenersi formato il silenzio assenso della Soprintendenza sul profilo paesaggistico. E ciò sia perché l’appellante non ha fornito alcuna prova dell’eventuale incompletezza della relativa pratica, sia perché non appare documentata e comunque non è condivisibile, per quanto innanzi rilevato, l’affermazione secondo la quale il Comune avrebbe indotto in errore la Soprintendenza nella richiesta a suo tempo formulata». Di qui il rigetto di entrambi gli appelli.

Nessun errore

«… non ha fornito alcuna prova dell’eventuale incompletezza della relativa pratica, sia perché non appare documentata e comunque non è condivisibile, per quanto innanzi rilevato, l’affermazione secondo la quale il Comune avrebbe indotto in errore la Soprintendenza nella richiesta a suo tempo formulata»

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