Leo Pugliese | Ventinove anni fa. Era il 10 giugno del 1996 e, poco al largo del porto di Marina Grande, il monocarena della compagnia SNAV si inabissò in pochi drammatici istanti. Quattro persone persero la vita: Rosa e Letizia Cardito, sorelle procidane, e una coppia lombarda, Sergio Gallina e Susanna Bello. Una tragedia silenziosa, avvenuta in una mattina d’estate soffocata dalla nebbia. Così fitta da sembrare, oggi, metafora delle indagini che seguirono: offuscate, incomplete, frenate da ipotesi e reticenze.
La morte si presentò rapida, improvvisa, mentre l’aliscafo “Procida”, un monocarena da 170 tonnellate, gioiello della flotta privata SNAV, lasciava il porto alle 7:50 diretto a Napoli. Il mare era calmo, ma la visibilità quasi nulla. Alcuni traghetti rimasero fermi per precauzione. Il “Procida”, invece, partì.
Pochi minuti dopo, l’imbarcazione virò bruscamente a destra, forse per evitare alcune barche ferme in rada. La manovra, però, fu troppo decisa. L’aliscafo perse il controllo e si schiantò contro la scogliera. L’impatto fu devastante: la carena si squarciò e l’acqua invase la cabina passeggeri. Per molti fu panico, per altri una lotta per la sopravvivenza. Per quattro persone, invece, fu la fine.
Le vittime avevano volti, nomi, storie.
Rosa e Letizia Cardito erano due sorelle legatissime.
Rosa, 75 anni, viveva con il marito e una pensione modesta; Letizia, 62, insegnante elementare, si stava preparando alla pensione. Quel giorno viaggiavano verso Napoli per una visita medica. La più anziana aveva problemi a camminare, la sorella le stava accanto. Quando l’acqua cominciò a entrare nell’imbarcazione, Letizia provò a trascinarla via. Non ci riuscì. Morirono insieme, ritrovate fianco a fianco dai soccorritori.
Susanna Bello e Sergio Gallina, crocerossina lei, medico in pensione lui, tornavano da una breve vacanza a Ischia. L’aereo per Milano li attendeva a Napoli. Invece rimasero incastrati tra i sedili dell’aliscafo. Susanna fu trovata con il collo stretto dal laccio del salvagente, il corpo sospeso nell’acqua. Il marito fu identificato solo in un secondo momento, confuso da un’incisione su una fede nuziale che fece pensare a un altro nome.
Il maresciallo della Guardia Costiera, Vincenzo Vitiello, fu tra i primi a immergersi nel relitto. Ricorda ancora la scena: corpi intrappolati, gambe che oscillavano cullate dalla marea, volti senza vita. Una vera apocalisse.
Il bilancio finale fu pesante: oltre alle quattro vittime, 110 feriti, 28 dei quali necessitarono il ricovero per fratture e traumi. Gli altri se la cavarono con lesioni minori e un trauma che, ancora oggi, molti ricordano.
E le cause? Quelle rimasero in parte sommerse, come il relitto.
Una gomena trovata attorcigliata all’elica destra fece pensare a un malfunzionamento improvviso. Forse fu quella a causare la virata fatale. Altre ipotesi parlarono di errore umano, di una manovra azzardata dettata dalla scarsa visibilità. Ma nessuno, nemmeno l’inchiesta della magistratura, riuscì a offrire una verità definitiva.
Il comandante Vincenzo Castagna, 63 anni, non era un novellino. Navigava tra Procida, Ischia e Napoli da 16 anni, otto volte al giorno. “Era esperto, prudente, affidabile”, dissero in molti. Ma forse proprio la consuetudine, la routine, può diventare un pericolo. Anche per i più esperti.
Oggi, a 29 anni di distanza, il ricordo di quel giorno resta vivido tra chi lo visse, tra i familiari delle vittime, tra i soccorritori e tra gli isolani. Il mare, quel giorno, non fu tempesta. Fu inganno. Calmo in superficie, ma letale in profondità.
Il “Procida” per qualche girono non torno’ a galla. Le sue vittime, sì: portate in superficie, compiante, ricordate. Ma la verità completa, quella forse giace ancora sul fondale, insieme alle ultime domande rimaste senza risposta.