FRANCO FESTA | Il libro di Andrea Covotta : “I costruttori di equilibri politici-dalla repubblica dei partiti a quella dei leader-“ casa editrice La Bussola, euro 12, è una delle poche vigorose ancore culturali che quest’ estate ci mette a disposizione. E’ un antidoto potente, perché della caduta verticale della sostanza stessa della politica, di questa perdita di senso collettiva, il libro offre, in modo meticolosa e coraggioso, i motivi e le origini, i punti di rottura e le spiegazioni. Tutto ciò senza spacciare impossibili e frettolose soluzioni, senza scivolare nella retorica del “come eravamo”, nel rimpianto di un tempo perduto. Anzi, Covotta analizza ciò che è accaduto nel nostro paese dal dopoguerra a oggi con lucidità e passione, animato solo dalla ricerca della verità e da una visione autentica di cattolico democratico, che non ha paura di individuare gli errori, le cadute, le occasioni perdute. Un libro prezioso, insomma, in un panorama nel quale trionfano le semplificazioni, le scorciatoie, le mezze verità spacciate per spiegazioni definitive, gli opportunismi più meschini contrabbandati per servizio alla comunità.
Il nodo del libro, il punto su cui l’autore ritorna continuamente, è appunto il tema della costruzione, faticosa e indispensabile, dell’equilibrio politico. Oggi siamo in un tempo contrario, in cui la ricerca continua è quella dello squilibrio, della rottura con le altre forze in campo, della definizione di rapidi punti su cui non aggregare consenso, ma su cui trascinare masse stordite e affascinate da parole d’ordine insignificanti. E’ il tempo di leader pronti non a indicare soluzioni, ma ad accodarsi agli umori mutevoli dei suoi seguaci,” a rivolgersi direttamente agli elettori scavalcando mediazioni e responsabilità collettive in nome di un diffuso individualismo”. Covotta è ben consapevole che questo comportamento non porta da nessuna parte, se non a esasperare la crisi, e cerca allora di ridefinire ciò che è la politica, ciò che deve essere, ciò che non è più, ciò che può tornare ad essere.
Il modo migliore per ottenere questo scopo è andare a individuare, specie nella Democrazia Cristiana, nel corso degli anni, quali sono state le figure che hanno fatto del confronto e della inclusione le loro virtù politiche, che hanno saputo coniugare la “necessità di cambiare la realtà senza strappare la tela del dialogo, ma lavorando ad essa con pazienza e intelligenza”.
Stiamo parlando di uomini come De Gasperi, Montini, Dossetti, Mattei, Moro, dei loro eredi migliori, come Piersanti Mattarella, Vittorio Bachelet, Roberto Ruffilli e, negli anni più vicini, Martinazzoli e Andreatta.
Lo schema di ragionamento di Covotta si articola in fasi distinte, alle quali è assegnato, non a caso, un nome che sembra far riferimento ai momenti del giorno: L’alba, La controra, il tramonto, il crepuscolo. Il riferimento è alla lunga stagione in cui si è sviluppata la politica in Italia, dagli anni della ricostruzione postbellica a oggi. Di più. Un importante prefazione è quella agli anni del fascismo, al ruolo svolto allora dai settori più avvertiti e sensibili del cattolicesimo. A partire da don Luigi Sturzo, che propone, nel 1919, la sfida di costruire un nuovo soggetto politico aperto a tutti, il Partito Popolare, un partito laico perché non coinvolge direttamente la Chiesa. E’ “un progetto che parte dal basso per consentire la partecipazione delle masse, soprattutto quelle meridionali e agricole, alla vita politica e sociale”. Ma il deciso antifascismo del sacerdote siciliano è un ostacolo per Mussolini e per le gerarchie della Chiesa a lui vicine, ed egli è costretto, nel 1924, ad emigrare. Tornerà solo nel 1946.


Negli anni del fascismo la figura centrale, sul terreno cattolico, è quella di Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI- l’Amleto del Vaticano, è la perfetta definizione di Covotta-. Nominato nel 1927 assistente ecclesiastico nazionale della Fuci, è lui che, con pazienza, si pone il problema del ruolo che, alla caduta del fascismo, sarebbe toccato ai giovani cattolici, ovvero fare dell’Italia un paese europeo e moderno: E’ a lui che fanno riferimento politici di valore come De Gasperi o Andreotti, è lui che li educa allo stile che consentirà poi alla Dc “di risolvere i contrasti in convergenze, di distendere le ostilità in confronto” (Baget Bozzo).
Il libro affronta poi una profonda disamina degli anni della ricostruzione, alla fine della guerra. E Covotta scrive pagine memorabili sull’artefice centrale di questo processo, Alcide De Gasperi. Mentre scorre gli avvenimenti degli otto governi di De Gasperi, dal 1945 al 1953 – gli anni di unità nazionale con il Pci, la rottura del ’48 con la sinistra dopo il viaggio in America, l’impegno attivo per la ripresa economica del Paese, la tenacia europeista, fino alle elezioni del 1953 -, l’autore si sofferma in particolare sui rapporti con Togliatti, il leader indiscusso del PCI. Sono confronti sempre dettati, anche nelle fasi di rottura, dal rispetto e dalla comune consapevolezza dei vincoli internazionali e insieme dalla necessità di costruire una via italiana all’interno di quel contesto. Via aspra, difficile, ma necessaria. La Dc di De Gasperi è certo il contenitore del voto conservatore e moderato ma non si riduce mai a una forza anticomunista e di destra, come pure piacerebbe a settori della Chiesa. Come De Gasperi affermò in una famosa intervista del 1948 con il Messaggero ”la Dc è un partito di centro che guarda a sinistra”. I tratti del libro in cui è descritta la personalità del grande leader trentino sono emozionanti. Il suo stile riservato, la sua cultura, il suo interloquire mosso sempre dal rispetto dell’avversario, uniti alla sua moralità inattaccabile, al suo senso alto e disinteressato dello Stato, lo uniscono idealmente a personalità come Dossetti, come Moro, giganti se confrontati con la mediocrità e le miserie del presente.
Segue una lunga riflessione dell’autore sugli anni del miracolo economico e sulla figura di Enrico Mattei, ”un uomo dinamico che non si ferma mai, l’opposto della prudenza e della cautela democristiana” eppure grande punto di riferimento per i settori avanzati della Dc ( è lui che organizza e finanzia la “Base”) e alfiere di una visione economica che non si affida solo al libero mercato, ma all’intervento diretto dello Stato, contro i monopoli dei grandi gruppi stranieri.
Una visione e un impegno che gli costeranno la vita. E’ Aldo Moro, infine, la figura che si afferma in tutta la parte centrale del libro. Va detto che di lui, come di ognuno dei personaggi su cui Covotta si sofferma, è presente un’ampia e ragionata biografia. Una scelta, questa, che consente a chiunque, anche a coloro che quegli anni non li hanno vissuti direttamente, di avere informazioni precise, di prima mano. Un libro, dunque, costruito anche per le giovani generazioni, e che meriterebbe senza dubbio di essere adottato, come strumento di conoscenza storica e politica, in ogni scuola.
Su Moro soffermeremo la nostra riflessione sugli anni che vanno dal ’68 al ’78. Moro è già stato leader indiscusso negli anni del centrosinistra. Unità della Dc, attenzione alle riforme economiche e sociali e insieme ai cambiamenti istituzionali, rendono Moro un punto di rifermento essenziale nell’equilibrio politico negli anni del boom economico, quando L’Italia cambia pelle e si apre la lunga e travagliata stagione del centrosinistra, caratterizzata nella prima fase da audaci riforme di struttura. “Diritti civili, scuola media unica dell’obbligo, unità sindacale, attuazione del decentramento regionale, statuto dei lavoratori, riforma delle pensioni, superamento della discriminazione per donne e giovani, unificazione dei minimi tabellari, abolizione della censura, nazionalizzazione dell’energia elettrica” sono solo alcuni dei provvedimenti messi in piedi in quegli anni. Ma ai governi di centrosinistra mancherà la spinta e il coraggio per arrivare a riforme più incisive. Moro ne è consapevole, sa bene che il primo problema è quello di proteggere una democrazia fragile come quella italiana composta da tessere sparse. Egli non è un politico arroccato ma è anzi aperto ai cambiamenti, ascolta la società, “non occupa posizioni di prestigio per un potere fine a se stesso, intende al contrario attuare una politica rinnovata che tenga insieme posizioni diverse”. Sono anni, quelli intorno al ‘68, in cui si comincia ad affermare una prassi che dilagherà negli anni successivi: ”un eccesso di potere da parte delle forze politiche che favorisce un malcostume che porta al degrado della politica”.
Il ’68, “una specie di esplosione di energia e di libertà ”porta sulla scena una generazione che ha l’ambizione, nemmeno troppo nascosta, di sostituire quella dei padri. Moro, che vive nella Dc mesi di isolamento e di solitudine, più culturale che politica, ”comincia ad interessarsi, ancor di più rispetto al passato, al mondo giovanile. Prova a capire i motivi di una crescente insoddisfazione sociale”. Sa che i partiti non riescono ad essere più tramite tra cittadini e istituzioni, sa che è loro compito confrontarsi con una diversa visione del mondo, che vede mutati i rapporti tra i popoli, tra le classi sociali e tra le nuove generazioni. “ Si tratta di includere nella sfera della politica le varie associazioni e i tanti movimenti che dalla società emergono e chiedono spazio”, aprirsi ai grandi cambiamenti, alle istanze nuove di cui i giovani sono portatori. ”Tempi nuovi si annunciano”, affermerà più volte. Ma la sua è una posizione minoritaria. Nella Dc e negli altri partiti di governo il problema prevalente è quello della gestione del potere, una asfittica e suicida concezione che allontanerà il Partito dalla società, attraversata intanto da terribili tensioni, a partire dalla strage di Piazza Fontana. E’ una strage, come è ormai certo, ordita dai servizi deviati dello Stato, nutrita di collegamenti internazionali ed eseguita dai fascisti di Ordine Nuovo che facevano riferimento a Freda e Ventura, con un’ unica funesta concezione: “ destabilizzare per stabilizzare”, folle teorema che tanto sangue innocente farà versare negli anni successivi.
Nei primi anni ‘70 sale l’indignazione contro la Dc, che trova forma compiuta in intellettuali come Pasolini, il quale “ arriva a ipotizzare un processo penale per i leader democristiani colpevoli di indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico”. Moro comprese che il nuovo moto della società non avrebbe risparmiato nessuno, e che dunque occorreva aprire una fase nuova, fondata sul confronto e sulla collaborazione con la più grande forza della sinistra, il Partito Comunista Italiano, allora guidato da un leader illuminato e intelligente, Enrico Berlinguer. Ha inizio, prima timidamente, poi con maggiore vigore, la fase cosiddetta del ”compromesso storico”, con Moro impegnato nel faticoso equilibrio di spostare su questo terreno tutta la Dc, anche i settori più conservatori, e con il fiato degli Stati Uniti sul collo, da sempre ostili ad ogni apertura. Sono gli anni della solidarietà nazionale, terribili e appassionanti, ricostruiti con dovizia di argomenti e partecipazione democratica. Sono gli anni che troveranno nella uccisione di Moro da parte delle BR, il 9 maggio ‘78, il loro tragico epilogo. In un capitolo vibrante,” Il Dio crocefisso” Andrea Covotta narra con prosa toccante e dolorosa gli ultimi giorni di Moro. Sono in molti, ormai, a sostenere che con l’assassinio di Moro muore la Repubblica nata dalla Resistenza. Tanti di coloro che, vicini a Moro, hanno lavorato con coraggio ad aprire vie nuove, sul terreno del governo e della Riforma dello Stato, vengono negli anni successivi uccisi barbaramente.
Lo è, il giorno dell’Epifania del 1980, Piersanti Mattarella, l’uomo che voleva bloccare il circuito perverso tra mafia e pubblica amministrazione in Sicilia, scardinare il sistema di potere affaristico mafioso che imperversava nella sua terra. Un autentico cattolico democratico “ che ha nella mediazione e nell’equilibrio le parole chiave di un progetto imperniato su un concreto riformismo”. Lo è, nello stesso anno, il professore Vittorio Bachelet, profondamente legato a Moro dagli anni della FUCI e vigliaccamente ucciso dalle Brigate Rosse nella facoltà di Giurisprudenza della Sapienza. Le parole del figlio Giovanni saranno la tomba per i brigatisti, perché sono parole di perdono, non di vendetta. “Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta di morte egli altri”. Otto anni dopo tocca a Roberto Ruffilli, ucciso in modo vile e miserabile dalle Br all’interno del suo appartamento a Forlì. Ruffilli è collaboratore strettissimo di Ciriaco De Mita sul terreno delle riforme istituzionali, intellettuale cattolico animato dal senso del servizio e da un progetto coraggioso, che è quello ”di mettere al centro la persona, promuovendo una politica che deve avere istituzioni adeguate a una società che sta cambiando velocemente”. Amare e ricche di verità le parole conclusive del bellissimo libro di Covotta: “Quello che manca nel nostro Paese è la “Politica”, rimasta chiusa dentro il bagagliaio di una Renault 4 rossa”