Ischia trema. Non spesso, ma quando lo fa lascia il segno. Non solo sulle case, sui muri, sulle chiese con le volte spezzate, ma anche nella memoria delle persone. E non è una metafora, qui: i terremoti non si raccontano come si raccontano i temporali. Ti restano dentro, ti cambiano il modo di dormire, il silenzio delle sere, persino il rumore dei passi sulla pietra.
Chi come noi ci è cresciuto, con quel vulcano spento sotto i piedi, sviluppa un certo fatalismo. O forse è solo istinto. Sai che la terra si muove, prima o poi. Non sai quando. Ma intanto vivi, costruisci, ridi, ti innamori. E magari scommetti pure su come andrà la giornata – che sia in amore, in mare, o su 20Bet per scommettere online. La differenza sta nel fatto che qui il rischio non è un’eccezione: è parte del paesaggio.
Luglio 1883. Il boato, poi il buio. Casamicciola si piega in ginocchio sotto un sisma di potenza feroce, improvvisa, spietata. Muoiono in migliaia. La città scompare quasi del tutto. Eppure, in quel disastro, nasce anche qualcosa. La prima vera reazione collettiva a un terremoto in Italia, con aiuti organizzati, telegrammi, giornali, medici e ingegneri. Qualcuno dirà che da lì è nata la Protezione Civile. Forse esagerano. Ma non tanto.
E mentre Ischia si rimetteva in piedi, pezzo dopo pezzo, la natura continuava a guardarla dall’alto, dalla vetta del monte Epomeo – antichissimo, verde, a volte inquietante. Lì sotto, il cuore dell’isola ribolle ancora, lento e nascosto.
Le ferite invisibili (e quelle che si vedono)
Ogni terremoto ha la sua voce. Alcuni urlano, altri mormorano. Quello del 2017, per esempio, sembrava piccolo sulla carta: magnitudo 4.0. Una scossa breve, uno strattone. Ma ha fatto crollare interi palazzi. Un bambino estratto vivo dalle macerie dopo ore, la madre che gli teneva la mano anche da sotto i calcinacci. Tutta l’isola in silenzio davanti ai telegiornali. Sembrava che l’incubo di Casamicciola fosse tornato, con altri volti.
Ma qui entra in scena un elemento difficile da descrivere, se non lo vedi da vicino: la testardaggine ischitana. Non è la stessa cosa del coraggio. È una specie di ostinazione gentile. Le nonne che tornano nelle case lesionate, perché “ci sono cresciuta qui, chi mi ci toglie”. I bar che riaprono mentre intorno volano ancora polvere e ruspe. Le risate nel fango, i bambini che giocano tra le crepe delle strade. Non è incoscienza. È memoria lunga. E abitudine a fare con poco, ma farlo comunque.
A proposito: lo sapevi che l’ospedale Rizzoli di Lacco Ameno venne costruito proprio per rispondere a una catastrofe? Era il 1890, pochi anni dopo quel terremoto disastroso. Un medico napoletano, con una visione folle e chiarissima, convinse le autorità a costruire un centro medico sull’isola. “Per non essere mai più impreparati”. Quella frase, se ci pensi, vale ancora oggi.
Tra fango bollente e cicatrici
Ischia è una contraddizione. Da un lato, le sue acque termali – un dono del sottosuolo, un abbraccio caldo che sembra lenire ogni male. Dall’altro, il rischio sismico. Un’energia ambigua, che cura e che distrugge. Ti rilassa nelle terme, ti spaventa nel cuore della notte.
I giardini termali, con le piscine bollenti affacciate sul mare, esistono anche grazie al fatto che l’isola è viva, sotto. Ma quella stessa vitalità, ogni tanto, si manifesta con uno scossone. Una specie di avvertimento? Chissà.
Intanto, la gente come noi continua a viverci. A sposarsi in chiesa con le colonne scheggiate, a organizzare processioni tra edifici puntellati, a ballare le sere d’estate sulle terrazze dove si intravedono ancora piccole crepe, eredità di notti difficili.
L’identità di Ischia non è solo paesaggio e mare. È un modo di stare al mondo. Tenace, ironico, a volte sarcastico. Qui si fa festa anche se tutto va storto. O forse proprio per quello. Non per rimozione, ma per sfida.
Il futuro costruito sulla lava (e sui ricordi)
Guardare avanti non è semplice, quando sai che il terreno sotto i piedi potrebbe svegliarsi da un momento all’altro. Ma Ischia non si limita a sopravvivere: prova a imparare. Corsi di evacuazione, mappe aggiornate, sensori sismici in tempo reale. Ma anche architettura antisismica, restauri che rispettano ma rinforzano, e una rete sociale che, nei momenti peggiori, diventa incredibilmente solida.
Una casa può crollare. Una comunità che ha memoria, invece, tiene.
C’è qualcosa di profondamente umano in questa isola che sorride anche col cerotto sulla fronte. Qualcosa che andrebbe studiato, raccontato, imitato. Non è retorica: è resistenza vera. Quella che si fa cucinando per il vicino, aggiustando un muro insieme, organizzando una festa di quartiere anche se la strada è ancora spaccata a metà.
E così, tra i vicoli di Forio, le scalette di Serrara Fontana, i giardini selvatici di Barano, continua la vita. A tratti leggera, a tratti amara. Ma sempre piena. Come il vino bianco servito freddo, con vista sul tramonto.
Ultima scossa (di bellezza)
Forse il vero miracolo di Ischia non è solo esserci ancora. Ma il modo in cui lo fa. Senza piangersi addosso, senza dimenticare nulla, ma con la forza disarmante di chi non si prende troppo sul serio. E magari proprio per questo, sa affrontare tutto.
Ischia trema. Ma poi si rialza, si lava il volto con l’acqua termale e torna a guardare il mare.
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