La morte trova ancora spazio sulle nostre strade e questo, personalmente, mi angoscia non poco. Una famiglia piange un ventisettenne che lascia moglie e figlio dopo l’incidente stradale che lo ha visto protagonista in Via Michele Mazzella con il Piaggio Porter dell’azienda di cui era dipendente.
Mentre ieri ero in sala d’attesa per una risonanza magnetica in un laboratorio ischitano, ascoltavo gli audio maldestramente riprodotti a volume eccessivo da un altro astante e percepivo che il suo interlocutore ponesse l’accento sui ritmi troppo frenetici della vittima, pronta a passare da un impegno lavorativo all’altro senza soluzione di continuità. Non credo che volesse fargliene una colpa, ma di certo lo evidenziava come una possibile causa o concausa di quanto occorsogli.
Non intendo appassionarmi a questo genere d’analisi e men che meno tornare sulla necessità di porre un freno all’inciviltà automobilistica imperante sulla nostra Isola, che per quanto resti un problema fortemente ricorrente, al pari della necessità di ripristinare e ampliare gli autovelox spenti ormai da troppo tempo, non rappresenta a mio giudizio la riflessione più adatta al momento. Piuttosto, perché non proviamo a concentrarci un attimo sulla frenesia dei nostri ritmi quotidiani, sulle necessità vertiginosamente crescenti della famiglia-tipo, sugli stereotipi e sui modelli sempre più complicati da emulare e sulle conseguenze che, in un modo o nell’altro, possono toccare prima o poi chiunque non riesca a restare al passo con una quotidianità implacabile e ostile? Ma soprattutto, perché non si imprime al nostro contesto locale una capacità di analisi della necessità di cambiamento di certi schemi che vada oltre la drammaticità oggettiva di eventi come la morte del povero Maurizio?
Siamo ancora troppo abituati a preoccuparci della salute solo quando ci tocca da vicino; così come siamo portati da sempre a proporci di cambiare vita ed allentare i nostri tour de force d’ogni giorno solo dinanzi all’inaspettata perdita di un nostro coetaneo, salvo riprendere punto e a capo o anche peggio di prima solo poco dopo; o ancora, ci rifiutiamo di analizzare seriamente una criticità diffusa trincerandoci dietro la più classica delle scorciatoie cognitive, della serie “a me non capiterebbe mai una cosa simile”, mentre il pericolo è sempre dietro l’angolo. Per tutti. Nessuno escluso.
Crescere come comunità non è solo riuscire ad esprimere una guida adeguata anche se lontana dai propri interessi abituali, ma anche saper essere società-famiglia che fa autocritica in direzione del proprio bene e di quello di tutti. Affinché più nessun Maurizio possa essere sottratto alla sua esistenza da una morte improvvisa di cui, in qualche modo, domani potremmo anche sentirci corresponsabili.