Avete letto dei nuovi neologismi riportati nell’ultima edizione del Devoto-Oli? Io sì, e da ieri sto riflettendo ancora una volta sull’opportunità o meno di dedicare così tanta importanza, nell’ufficialità di uno strumento universale -per quanto desueto- come un dizionario, alle nuove espressioni (prevalentemente anglicismi) che invadono con sempre maggior insistenza il nostro lessico tradizionale.
E’ vero, come scrisse il linguista Luca Serianni prima della sua scomparsa, che un dizionario dev’essere «come un organismo vivo, in grado di descrivere una realtà in continua trasformazione solo se rinnovato di edizione in edizione e mantenuto costantemente giovane nella sua lingua e nelle sue strutture» (cit. da Corriere.it). Ma alcune espressioni sono veramente inaccettabili, spesso cacofoniche, e talvolta danno l’idea più di un simpatico parto creativo che di un mal riuscito lavoro linguistico.
Il tanto sbandierato “figitale” (sintesi tra fisico e digitale), per esempio, a cosa Vi fa pensare? E “Yolo”, invece (acronimo di You Only Live Once), che definisce la relazione tra attività lavorativa e svago? Oppure, riuscireste a sostituire “imbarazzante” con “cringe”, “insultare” con “dissare”, o a definire “crush” una persona verso la quale provate attrazione (la vecchia “cotta”, per intenderci)? Eppure oggi tutto questo, senz’altro in ottima compagnia già da anni, rientra ufficialmente nella nostra lingua parlata. E sebbene io faccia i conti da trentacinque anni e più, professionalmente parlando, con l’evoluzione del linguaggio in ogni sua forma, non riesco proprio a reprimere quella parte di purista dell’italiano che vive in me da sempre.
Non giungerò mai ad auspicare azioni protezionistiche in stile francese, come ad esempio l’obbligo transalpino di trasmettere in radio una percentuale minima di brani musicali in lingua nazionale. Ma approverei senz’altro una qualche forma di tutela contro certe inutili e talvolta dannose esasperazioni dell’universalità linguistica ad ogni costo.