lunedì, Novembre 10, 2025

L’isola grida “Basta morte a Gaza”. In 1000 in piazza per la Palestina: famiglie e giovani in testa

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Cinque anni, lo sguardo serio, una bandiera disegnata sul cuore. Si chiama Andrea Maria, italiano di seconda generazione, ischitano al cento per cento. Il suo volto è l’immagine della manifestazione che ieri pomeriggio ha portato in strada oltre mille persone, un corteo ordinato e determinato partito da Piazza Antica Reggia e snodato lungo Corso Vittoria Colonna fino a Ischia Ponte.

Bandiera palestinese in testa, striscioni e cartelli lungo tutta la colonna, famiglie con passeggini, studenti, lavoratori, anziani, amministratori locali. Una partecipazione trasversale che ha dato il segno di un sentimento diffuso: chiedere lo stop delle ostilità e denunciare le violenze nella Striscia di Gaza, attribuite dai manifestanti allo Stato di Israele e definite senza ambiguità come “barbarie” consumate sotto il “falso pretesto” della guerra ad Hamas. Parole dure, pronunciate con toni civili, dentro un perimetro di compostezza che non ha attenuato la chiarezza del messaggio.

La marcia, promossa con il patrocinio dei Comuni di Ischia, Lacco Ameno, Forio e Procida e sostenuta dalla presenza della Diocesi dell’isola d’Ischia, ha unito il centro al borgo antico. Sul piazzale, a ridosso del mare, il momento conclusivo: riflessioni pubbliche, testimonianze, musica. Nessuno slogan urlato oltre misura, nessuna forzatura; piuttosto una richiesta netta, ripetuta come un coro: cessate il fuoco, corridoi umanitari, rispetto del diritto internazionale e tutela dei civili.

Andrea Maria ha cucito il senso della giornata. Nato e cresciuto qui, figlio di un’isola che accoglie è come un contrappunto semplice a una geopolitica complessa: un bambino che chiede di fermare le bombe.

Il corteo ha attraversato le vie principali senza incidenti, con un servizio d’ordine di Polizia e Carabinieri discreto e una partecipazione costante dall’inizio alla fine. Le voci dei promotori hanno ribadito l’esigenza di non voltarsi dall’altra parte di fronte alle cronache di ospedali, scuole e quartieri civili colpiti, mentre l’orizzonte del Castello, oltre il ponte, ha fatto da scenografia a una richiesta elementare e insieme gigantesca: proteggere la vita, garantire la pace.

Ischia, ieri, ha scelto la strada. Lo ha fatto a modo suo, senza retorica, con il passo di chi sa che la pace non si invoca una sola volta e poi basta. La si chiede, la si pretende, la si coltiva. Anche partendo dallo sguardo di un bambino di cinque anni.

Tra i manifestanti c’era anche la prof. Souzan Fatayer docente di Storia all’Università Orientale di Napoli ed esponente di spicco della comunità palestinese della Campania e parla con i toni forti di chi sente sulla propria pelle il dolore: “la situazione a Gaza è disperata” e l’accoglienza riservata a Netanyahu all’ONU “dovrebbe farci vergognare e riflettere”. Fatayer poi alza il tono e chiede embargo, ritiro delle sedi diplomatiche e un boicottaggio artistico, culturale ed economico, perché “senza pressione Israele continuerà nella politica di uccisione dei palestinesi”. “Siamo oltre Hamas. A morire sono i bambini, ci sono migliaia di minori mutilati.” La professoressa richiama anche la Cisgiordania, “con milioni di palestinesi di fatto chiusi, malati e studenti bloccati,” e denuncia “la morte dell’umanità e del diritto internazionale” di fronte al silenzio globale. La kefiah che indossa è un simbolo di memoria e resistenza: “Quando ascolto “Bella ciao” e indosso la kefiah penso ai partigiani italiani. La lotta è la stessa: libertà e indipendenza.”

Tra gli striscioni e i cori che rimbalzano lungo il percorso del corteo, si fa spazio l’immagine semplice e potente di una famiglia. Emanuela stringe la mano al compagno Donato, tiene il piccolo Daniel nel passeggini, avvolge le spalle con una bandiera palestinese e indossa una maglietta che non concede equivoci: “Free Palestine”. È una presenza composta, ma le parole arrivano decise, senza giri di frase. “Non è una questione politica, non è un’ideologia. È una questione di umanità. Un’umanità che è stata distrutta dal silenzio dei governi occidentali”, dice, mentre attorno si alternano applausi e richiami al cessate il fuoco.

Il suo racconto è quello di una madre che guarda altre madri e altri figli. Parla di famiglie spezzate, di bambini “alla fame, assetati, fatti a brandelli da bombe”, e lega l’indignazione alla responsabilità pubblica: “Quegli ordigni colpiscono campi profughi e sfollati, bambini in fila per una goccia d’acqua o per un pezzo di pane. E intanto si stringono mani in sedi istituzionali. Come si può accettare tutto questo nel 2025, mentre perfino gli aiuti umanitari non riescono a raggiungere le stesse sponde dove d’estate facciamo il bagno?”
Emanuela rifiuta la lettura riduttiva che riconduce tutto al 7 ottobre. Ricorda che la violenza “si consuma da anni” e cita i morti del 2022 in Cisgiordania, “nei territori occupati”, per poi spostare il fuoco sul presente. “In una striscia di terra più piccola di Roma milioni di persone vengono spinte da nord a sud, da Rafah altrove, e bombardate anche dopo gli avvisi di evacuazione. Non è possibile accettarlo.” La sua è una critica dura, che chiama in causa scelte politiche e responsabilità internazionali, ma resta ancorata alla cifra personale: la difesa dell’infanzia, del diritto elementare a vivere e a essere curati, della dignità negata.

C’è anche la frustrazione per ciò che definisce una “indignazione selettiva”, quella che si accende per una vetrina rotta e si spegne davanti a notizie di stragi. “La violenza è sbagliata, certo. Ma dove ci si dovrebbe indignare davvero è a Gaza, non solo nelle nostre piazze. Penso a una bambina di sei anni, al suo corpo crivellato. Penso allo sguardo di chi l’ha colpita mentre era in auto con la famiglia.” È un’immagine durissima, che Emanuela pronuncia con voce commossa, e che restituisce la misura del trauma collettivo filtrato da una sensibilità privata.

Nel flusso dei cori, riaffiora anche la fatica di dover respingere etichette che considera pretestuose. “Sono stanca di sentirmi dire antisemita o pro Hamas. I palestinesi non sono Hamas, sono esseri umani. Il diverso fa paura, sempre. E ho il sospetto che se quei bambini fossero bianchi ci saremmo mobilitati da tempo.” Un’accusa esplicita di doppio standard che, nel contesto della manifestazione, trova rispondenza nei cartelli e nelle voci che invocano il rispetto del diritto internazionale e la tutela dei civili.

La chiusura è tutta politica, nel senso più ampio e civico del termine. “I cittadini stanno facendo quello che dovrebbero fare i politici. Non ci sentiamo rappresentati, non perché siete di destra o di sinistra, ma perché non siete umani.” È una formula che non cerca conciliazioni e che si appoggia alla scena: una piazza piena, una famiglia in prima fila, una bandiera sulle spalle e un bambino che osserva. Lì, in quell’immagine minuta, Emanuela colloca il suo punto di vista: la protesta come dovere, la presenza come testimonianza, la richiesta che la parola “umanità” torni a significare qualcosa di concreto.

Nel corteo ischitano, tra amministratori e semplici cittadini, prende la parola la sindaca Irene Iacono. La sua presenza, dice, nasce prima di tutto da un impulso civile, oltre l’incarico istituzionale. “Siamo stanchi di vedere orrore e morte ogni giorno, nel nostro mondo e in particolare a Gaza, dove scorrono immagini di bambini che muoiono, di persone che piangono, di famiglie che lottano per accedere a un po’ di cibo. Nel 2025 tutto questo è inaccettabile.”
Il richiamo è alla politica estera e agli strumenti della trattativa. “Dobbiamo attivare la diplomazia per risolvere i conflitti. Non si può pensare che tutto si risolva con le armi. Basta armi, spazio alla diplomazia.” Poi lo sguardo torna alla piazza. “Siamo qui, come comunità civile di Ischia, per dire che questo non è ammissibile. L’isola ha un grande cuore e lo dimostra ogni volta che c’è da stringersi attorno a situazioni drammatiche.”

Il messaggio finale è inclusivo e supera gli schieramenti. “Basta guerre. Vogliamo dire la nostra, al di là delle appartenenze partitiche e politiche. È un dovere innanzitutto civile, oltre che, per molti di noi, un dovere cristiano: mettere in pratica ciò che abbiamo sempre proclamato”.

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