Editoriale | Nei verbali ufficiali raccolti tra il luglio e il settembre 2023, le dichiarazioni degli imprenditori di Ischia si somigliano tutte. Linguaggio misurato, versioni fotocopia, ricordi vaghi: “Non ho subito minacce”, “Viaggiavo con chi offriva un servizio migliore”, “Mai avuto problemi”.
Ma fuori dalla stanza dell’interrogatorio, dove le parole pesano meno ma la verità emerge di più, la narrazione cambia radicalmente. Le intercettazioni ambientali realizzate dal Commissariato di Ischia – nelle sale d’attesa, nei corridoi, nel piazzale antistante – restituiscono una realtà ben diversa. Non ci sono denunce, ma ci sono confessioni. Non ci sono accuse, ma ci sono consapevolezze.
Uno degli imprenditori, prima di entrare in audizione, dice con tono fatalista: “Con Marrazzo non dovevi nemmeno presentare i documenti. Bastava pagare.”
Una frase semplice, che rivela più di un’intera audizione. Con lui il servizio era rapido, senza intoppi, senza controlli. Era una scelta “sicura”, anche se non sempre regolare.
Un altro, incrociando un collega in attesa, ammette: “Lui ci fa lavorare, gli altri ci fanno solo problemi.”
Il riferimento è alle altre compagnie, che richiedevano verifiche tecniche, modulistica aggiornata, autorizzazioni puntuali. Con la TRA.SPE.MAR., invece, le pratiche venivano “snellite”. E questa efficienza diventava, di fatto, uno strumento di fidelizzazione forzata. Ma la frase che più colpisce arriva da un dialogo tra due trasportatori, registrato nel cortile del Commissariato:
“Adesso che quello ha parlato, li abbiamo addosso pure noi.”
Quel “quello” è il denunciante. Colui che ha spezzato il silenzio. E il risentimento che suscita è tangibile. Non nei confronti di chi imponeva, ma di chi ha avuto il coraggio – o la sfrontatezza, dal loro punto di vista – di denunciare.
“Se parli, poi sei solo. Chi ti copre più?”, dice uno.
“Non è che ci costringeva. Ma se non andavi con lui, ti facevano passare l’inferno”, aggiunge l’altro.
Frasi mai dette nei verbali. Ma registrate. Catalogate. Ora agli atti. E forse è proprio in questa distanza – tra ciò che si dice formalmente e ciò che si dice quando si crede di non essere ascoltati – che si misura la profondità del condizionamento. Una zona grigia dove il silenzio non è solo prudenza, ma parte stessa del meccanismo. Una complicità che nessuno rivendica, ma che molti praticavano.
IL PARADOSSO DEL “QUIETO VIVERE”: Quando il silenzio non protegge, ma rafforza il potere di chi impone
Nel cuore dell’indagine TRA.SPE.MAR., il termine più ricorrente tra le testimonianze degli imprenditori è uno solo: “quieto vivere”. Una formula semplice, che però racconta molto più di quel che sembra.
Chi lavorava nel settore del trasporto dei rifiuti a Ischia tra il 2012 e il 2024 sapeva che affidarsi alla compagnia gestita da Angelo Marrazzo garantiva vantaggi concreti: meno controlli, procedure più snelle, partenze rapide anche senza autorizzazioni complete.
Per alcuni, questo si traduceva in efficienza. Per altri, in una forma di protezione dalla pressione amministrativa. Nessuno la dichiarava come tale, ma tutti la comprendevano.
Secondo quanto emerge dalle intercettazioni ambientali, era proprio questo il nodo su cui si costruiva il consenso: “Con lui lavori tranquillo. Con gli altri, ti fermi al primo controllo.”
“Paghi di più, ma almeno non ti fanno storie.”
“Tanto ci vanno tutti, che problema c’è?”
Nel linguaggio comune degli operatori, evitare problemi diventava una forma di sopravvivenza economica, anche se significava rinunciare alla libertà di scegliere o alla legalità formale.
E così, la comodità si è trasformata in dipendenza, e il “quieto vivere” in una collaborazione silenziosa che ha permesso al sistema di perdurare.
Ma c’è di più: quando un imprenditore ha scelto di denunciare, quel principio si è ribaltato. Il suo gesto, invece di spezzare la catena, ha scatenato la reazione del gruppo. Non contro chi imponeva, ma contro chi rompeva la tregua.
“Ci ha messo tutti nei guai.”
“Ora ci controllano anche a noi.”
“Era meglio stare zitti.”
Il paradosso è evidente: in un contesto segnato da pressioni, l’unico gesto potenzialmente liberatorio è stato percepito come pericoloso.
E questo ci dice una cosa più ampia: a Ischia, come in tanti contesti simili, non è solo la paura che fa tacere. È anche la convenienza. Ma quando la convenienza si fa abitudine, non è più prudenza. È assuefazione.
E alla fine del racconto dell’inchiesta approfondiremo anche l’assuafazione e la soggezione della pubbliche amministrazioni.