Foto Francesca Pradella e Ischia Film Festival | Un incontro dal sapore informale, quasi una chiacchierata tra amici, con Marco Giallini, ospite dell’Ischia Film Festival per presentare Dragonetti – La città proibita. Un film anomalo, originale, che lo ha profondamente segnato. «È stata una delle esperienze più belle della mia vita, artisticamente e umanamente», esordisce l’attore romano, con la sua consueta schiettezza.
Benvenuto ad Ischia, l’isola che ha affascinato Luchino Visconti alla Colombaia che ha già visitato e tantissimi altri attori. Si sente il richiamo dell’arte di questa terra?
«Sì, ci sono stato. Il direttore artistico del festival, Michelangelo, mi ha portato proprio lì, sulla tomba di Visconti. Un momento davvero emozionante, quasi sacro. Sentire quel silenzio, quella luce dell’isola, stare in quel luogo dove un gigante del cinema ha vissuto… ti colpisce dentro. Non so spiegarlo, ma Ischia ha un’energia particolare, si sente l’arte nell’aria. Passo spesso sulla Salaria, dove Visconti aveva casa a Roma. È come se il cinema avesse lasciato un’impronta indelebile su questa terra. Si respira arte a rotta de collo»
Tornare a Ischia è sempre un dono. Cos’ha di speciale per te quest’isola?
«È un posto che conosco bene. Questa volta sono stato alla Colombaia, grazie a Michelangelo, il direttore artistico. Mi ha portato sulla tomba di Visconti… un momento davvero emozionante. Sentire quel silenzio, quella luce… è come se il cinema avesse lasciato un’impronta indelebile qui. Si respira arte a rotta de collo.»









Parlando della “Casa Proibita”, Cosa ti ha colpito di questo progetto?
«Era un film diverso, coraggioso. Giancarlo, lo sceneggiatore, è anche un mio amico di vecchia data. Abbiamo voluto raccontare qualcosa di profondo, con una funzione sociale vera. È stato un progetto che mi ha dato tanto, e non lo dico tanto per dire.»
Nel film la città di Roma ha un ruolo centrale. È quasi un personaggio. È così anche per te?
«Roma è sacra. Io vengo da Talenti, dove mio padre diceva che una volta c’erano le pecore… e aveva ragione. Ogni quartiere è un mondo a sé. Roma la vivo in moto, è così che la sento mia.»
A proposito di Napoli: come è stato lavorare con Paolo Sorrentino?
«Un grande. Napoli mi ha accolto per due anni, quando giravo La nuova squadra. Abitavo al Vico Alabardieri., ho fatto gruppo con attori straordinari. Paolo è un gigante, uno di quelli che lavorano sul set con un’intensità rara. Ti fa sentire parte di qualcosa di importante.»
C’è un legame forte tra Roma e Napoli, secondo te?
«Più che un gemellaggio, direi che c’è un’affinità. Non ho bisogno di etichette per capire quando una città mi entra dentro. Napoli lo ha fatto, come lo ha fatto Bari, Ischia, Mantova. Sono i volti della gente che fanno la differenza.»
Tanti ti definiscono un “anti-divo”. È una scelta?
«Sì, ma non per posa. Semplicemente sono fatto così. Sto nel mio, non vado in giro a farmi vedere. Mi piace stare defilato. È la vita che mi ha insegnato a essere così» (ride)
Cosa significa per te lavorare con registi “visionari”?
«Lavorare con gente così è edificante. Devi crederci fino in fondo. È un modo di lavorare che ormai si vede poco.»
La passione per la musica cosa rappresenta per te?
«Una valvola di sfogo. A casa ho chitarre e 3 batterie. Ho suonato anche con De Gregori, fatto un duetto con Paola Turci. Abbiamo fatto un pezzo in romanesco che mi è rimasto nel cuore. Mio figlio fa il musicista…»
Rivedremo Rocco Schiavone?
«Senza Schiavone sono morto! (ride) No, scherzi a parte, tornerà. La Valle d’Aosta, Roma, il personaggio… sono diventati una parte di me. È uno dei ruoli che sento più miei.»
Nel corso della tua carriera, quali sono state le svolte decisive?
«Sicuramente Posti in piedi in Paradiso di Verdone, ACAB di Sollima, Perfetti sconosciuti di Genovese e ovviamente Rocco Schiavone. Ma anche La città proibita. Tutti film che mi hanno insegnato qualcosa.»
Hai spesso interpretato più o meno personaggi al confine tra il bene e il male: poliziotti non convenzionali, uomini tormentati, criminali dal volto umano. Secondo te, è nei “borderline” che si racconta meglio la realtà?
«Più o meno. I poliziotti che ho fatto non sono mai stati “eroi” classici, erano personaggi al limite, spesso inquieti, anche incasinati. Ma è lì che sta la verità. Nella vita reale nessuno è tutto buono o tutto cattivo, e il cinema dovrebbe raccontare questa complessità. Mi piace quando i ruoli sono sporchi, quando ti costringono a camminare sul filo. È lì che riconosci qualcosa di vero.»
Molti dei tuoi personaggi sembrano incarnare figure difficili, ferite, ma vere. È anche un modo per restituire al pubblico la complessità della società?
«Sì, è proprio quello. Io ci provo, almeno. La gente si riconosce nei momenti di fragilità e poi è presa dai suoi problemi. Ci provo lo stesso e sento che sto raccontando qualcosa di utile. La vita è fatta di ombre e tentativi»
E c’è un ruolo che ancora sogni di interpretare?
«Il bello di questo mestiere è che puoi essere chiunque. Mi piacerebbe qualcosa di davvero scomodo, difficile. Mettermi alla prova.»
