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sabato, Aprile 20, 2024

Il Referendum. Tra il si e il no

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Vincenzo Acunto | L’argomento che tiene banco, in questi giorni che si anticipano al 4 dicembre, è quello della verifica popolare, attraverso lo strumento del “referendum”, della proposta di modifica costituzionale licenziata dal parlamento italiano.
Il quesito che troveremo sulla scheda è molto ammiccante per un elettore, incazzatissimo con i politici e recita pressapoco così “vuoi tu ridurre il numero dei parlamentari e vuoi tu ridurre i costi della politica?”.
Come al solito in Italia solo dopo aver fatto cucire il vestito dal sarto escono fuori i critici che si strappano le vesti. Tanti ex presidenti della consulta sono apparsi sul pulpito e, con un linguaggio incomprensibile ai più, hanno definito il quesito referendario alla stregua di “uno slogan da supermercato”. E’ vero.
L’avesse, in tal modo, proposto Berlusconi, immagino che i girotondi avrebbero bloccato l’Italia e la definizione sarebbe stata in linea col pensiero dominante. Ma che, tale definizione, la si avvicini ad un premier che è stato la migliore sintesi dei salotti dei “maitre a penser” di una certa area politico/culturale, lascia abbastanza sgomenti.
Il ragionamento ci porterebbe troppo lontano e farebbe perdere di vista quello in disamina che tende ad offrire un parere, non richiesto, per formarsi una idea circa la modifica della costituzione della repubblica italiana, come elaborata quella bella ragazza toscana che risponde al nome di Maria Elena Boschi. Ella, nel furore spumeggiante della gioventù, si è assunto l’onere di modificare quanto, un altro toscano come lei, “Piero Calamandrei”, aveva con altri grandi menti dell’epoca, contribuito a scrivere.
Non userò tecnicismi incomprensibili che farebbero solo il gioco di chi vuol ciurlare nel manico, ricordando, allo scopo di far capire, dei fatti molto semplici. I lavori preparatori e costitutivi della carta fondamentale, videro lavorare, gomito a gomito, gente che pur non sopportandosi, trovarono punti di intesa nel superiore interesse dello Stato e del popolo italiano.
E’ dal 1948 che la Carta fondamentale ha contribuito al benessere di tutti. Da quando ha patito ingressi additivi o modificativi il paese è andato a rotoli e noi con esso. Pochi esempi: è scritto nella costituzione (art.114) che “la Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato”.
Il lettore si rende conto che al momento della sua approvazione il territorio, che nell’ordine di importanza costituiva lo Stato, era identificato nei comuni, nelle province e poi nelle regioni. Queste ultime, fino al 1970 erano solo delle espressioni geografiche e furono tenute in “surplace” dai governi che si susseguirono fino al 1968, quando sulla spinta dei moti di piazza di quel tempo fu approvata la legge 108 che indiceva le elezioni per la formazione dei consigli regionali, avvenuta poi nel maggio del 1970.
Qualcuno si chiederà come fu possibile che nella costituzione erano previste le regioni e poi si aspettò oltre vent’anni per farle entrare in funzione. La risposta non è difficile e la si intuisce andando a leggere i lavori parlamentari della costituente. I governi che si formarono dal 1948 in poi s’erano resi conto che nell’art. 114 c’era un organo spurio, aggiunto in ultimo come organo amministrativo, al quale non si sapeva cosa far fare e pertanto preferirono il “surplace” al disastro.
Ricordiamo tutti che dal 1948 al 1970, mancando le regioni, lo Stato italiano segnò una progressione del benessere di tutti che definire entusiasmante è poco. Nessun altro stato europeo uscito distrutto dalla guerra, seppe fare meglio. Non dimentichiamo che nel 1948 il popolo italiano era in prevalenza analfabeta e povero. In meno di 10 anni l’Italia diventò una potenza economica e nel 1961 la lira ottenne il premio quale moneta più forte e stabile d’europa. Con la formazione delle regioni e delle loro elefantiache organizzazioni, la spesa pubblica diventò inarrestabile e la incertezza delle competenze fece si che non si sapeva chi comandasse in tanti settori. Nel 1998, con la bicamerale presieduta da un certo signor D’Alema, che diverrà l’anno successivo presidente del Consiglio, fu partorita l’idea per la modifica costituzionale del titolo V ampliando i poteri delle regioni (in tema di rappresentanza, spese e legiferazione).
Il buco nei conti pubblici, iniziato nel 1970, è diventato un baratro incolmabile che, con il cambio della moneta (l’ulteriore genealità!!), ci ha reso tutti poveri e consegnati ad un fisco insopportabile che, di fatto, oltre a renderci pezzenti, ci ha smembrato le famiglie da dove i figli (come i nostri nonni) devono fuggire all’estero a cercare lavoro.
Alla luce di quanto brevemente sunteggiato, fermo restando il convincimento che la nostra carta costituzionale necessita di qualche adeguamento, chiedo:
1) Può ritenersi seria una modifica che toglie al popolo la facoltà di eleggere i senatori per consegnarla ai partiti che sceglieranno i senatori tra consiglieri regionali e sindaci di città?;
2) Può ritenersi seria una modifica che si annuncia come riduttrice di spesa ma che di fatto mantiene inalterato tutto l’apparato burocratico esistente?
3) Chi è disposto a immaginare che i vari consiglieri regionali o sindaci si recherebbero, dalle loro sedi di appartenenza, a Roma gratis e senza costi per l’erario?
Suvvia siamo seri. Non si può prestare consenso ad un tentativo di modifica (peraltro pericoloso se congiunto con la appena modificata legge elettorale) della carta costituzionale affidandoci ai suggerimenti che ci fornisce la graziosa ragazza di Montevarchi. Ella sicuramente ci può offrire una bella costituzione: quella sua fisica che è cosa diversa da quella che deve regolamentare la vita di milioni di persone. Per tali regole è necessario avere prerogative di competenze che abbiano avuto altri percorsi culturali, professionali e di vita che la bella Maria Elena, grazie a Dio, non ha ancora avuto. Per capire l’importanza che i padri costituenti davano alla carta costituzionale, basta ricordare che Piero Calamandrei, benchè avesse avuto un ruolo di rilievo nel governo del ventennio fascista occupando posti di prestigio per le sue attività di giurista e revisore dei codici, fu chiamato a far parte (nel 1945, quando tutti coloro che avevano in qualche modo collaborato col pregresso regime erano al bando), della consulta nazionale e successivamente eletto alla costituente divenendo membro della commissione per la costituzione italiana che, come ho detto in precedenza, servì ad unire il popolo e non a dividere come invece si presenta l’attuale proposta di modifica.
A queste semplici osservazioni se ne potrebbero aggiungere infinite altre per convincerci a dire NO

3 COMMENTS

  1. Carissimo Vincenzo (avvocato)non m interesso di politica perché non credo nei politici o in quei tali che si professano tali oggigiorno – un accozzaglia di delinquenti che per loro si dovrebbero ripristinare carceri come S.Stefano o di peggio ancora- ma si può’ vivere in un limbo alla merce’ di questa gente dove non sai quali sono i tuoi diritti ma hai solo obblighi e la legge non esiste se non per loro comodità e a loro piacimento ? cosa cambia in me ( cittadino) il si o il no quando già’ oggi non conto niente? se oggi conto zero domani al massimo sarò’ un altro zero e allora ?credo che il si o il no sia per quelli politici che hanno paura di poter perdere quello che hanno oggi (No) e quegli altri che vorranno accaparrarsi quello che non hanno oggi (Si) – caro Vincenzo c è’ un vecchio proverbio che i nostri avi ci hanno trasmesso e che rimane sempre di moda ” e ciucc s ‘appicicano ed e varril c vann x sott ” chiedo scusa per come l ho scritto – il vero problema ormai è’ che la nostra politica é come un “cancro”ci vogliono medicine particolari( diciamo bisturi ma non solo) mirate ma non sempre basta.

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