C’è un profumo che tradisce l’isola prima ancora di vederla. Ti prende alla gola mentre il traghetto attracca, si infila nei vicoli assolati, sbuca dalle cucine che non hanno bisogno di insegne. Magari sei lì, che stai facendo il fare il 20Bet login per scommettere online e ti distrai. Un profumo di aglio, pomodoro, vino bianco, alloro, pepe nero… e qualcos’altro che non sai spiegare subito. Ma poi lo capisci: è coniglio. Coniglio all’ischitana.
No, non è un piatto da ristorante elegante, di quelli che ti servono in silenzio, con le pinzette. Questo è cibo vero. Sudato, stanco, allegro. Da mangiare con le mani, magari bevendo vino in bicchieri spaiati, mentre qualcuno racconta una storia troppo lunga per arrivare in fondo.
Eppure, dietro questa ricetta apparentemente rustica, c’è un mondo. Di fame, di ingegno, di terra brulla e mani che non si sono mai arrese. Un mondo in cui perfino un animale come il coniglio, che di solito se la fila, diventa simbolo di resistenza, e pure di festa.
Tra terra e fuoco: un’origine contadina
Il coniglio all’ischitana non viene dal mare. Già questo lo rende speciale. In un’isola che vive di pesca e di onde, la sua carne simbolo nasce nel cuore di tufo e terra del monte Epomeo, tra orti in salita e muri a secco.
Anticamente, chi viveva in alto, lontano dalle coste, non aveva accesso facile al pesce. Le incursioni dei pirati saraceni rendevano la vita difficile e le reti da pesca, per molti, erano un lusso. Così si guardò altrove. E il coniglio, piccolo, prolifico, facile da allevare anche in spazi stretti, divenne una risorsa preziosa.
Ma attenzione: qui non parliamo di allevamenti intensivi o gabbie metalliche. Il coniglio all’ischitana viene cresciuto nelle “fosse” – cavità scavate nella roccia vulcanica, dove gli animali vivono quasi liberi, nutriti con erbe spontanee, pane raffermo e scarti vegetali. Un sistema antico e ingegnoso, che ancora oggi resiste, come certe nonne che non vogliono saperne del microonde.
La cottura è un rito. Si comincia col soffritto, si aggiunge il coniglio a pezzi, si sfuma con vino bianco locale, si insaporisce con erbe, spezie, pomodorini freschi (quelli veri, non da supermercato). Poi si lascia andare, piano, col coperchio un po’ scostato. Il sugo si addensa, il profumo invade. La tavola aspetta.
Non solo carne: una storia fatta di pane, sugo e racconti
C’è un dettaglio fondamentale, quasi più importante del coniglio stesso: il pane.
Quello cafone, cotto a legna, con la crosta scura e la mollica spugnosa. Serve per raccogliere il sugo, che è la vera anima del piatto. Si chiama “scarpetta”, ma a Ischia è un gesto sacro. Nessuno giudica. Anzi, se non la fai, ti guardano storto.
E poi c’è l’altra parte, quella invisibile ma fondamentale: la chiacchiera. Ogni coniglio all’ischitana porta con sé una storia. Una zia che lo cucinava solo il giorno di Sant’Anna, un vicino che ci metteva l’origano selvatico e guai a dirgli che sbagliava, un pranzo durato sei ore e finito col caffè freddo e una partita a scopa.
Insomma, più che una ricetta, è un pretesto. Per stare insieme, per discutere, per raccontare sempre le stesse cose come se fosse la prima volta.
Resistenza in salsa rossa
La verità? Questo piatto è una lezione di sopravvivenza. Di quelle che non si imparano sui libri, ma tra fornelli arrugginiti e cucchiai di legno consumati. Una cucina che nasce dalla povertà, ma non si vergogna. Anzi, rivendica il suo passato.
Mangiare coniglio all’ischitana oggi significa celebrare tutto ciò che Ischia ha saputo trasformare: le sue ferite, i suoi limiti, la sua fame. Ogni morso ha qualcosa da dire. A volte lo capisci subito, altre dopo ore, magari mentre torni a casa con il sapore ancora in bocca.
E poi c’è il tempo. Quello della preparazione, che non si può accelerare. Quello del pranzo, che non si misura in minuti ma in racconti. E quello del ricordo, che resta attaccato ai vestiti, ai capelli, ai sogni della notte.
L’eredità del gusto
In un mondo che corre, che plastifica tutto, che riduce ogni cosa a “format”, questo piatto resiste. Non è instagrammabile, forse. Non è nemmeno facile da trovare nei menù turistici. Ma se hai la fortuna di sederti a una tavola vera, a Ischia, ti arriva. Magari con un po’ di rumore, con qualche bicchiere scheggiato, con la voce di una zia che urla dalla cucina. Ma ti arriva. E ti resta.
Il coniglio all’ischitana è l’isola, compressa in una casseruola di coccio. E Ischia non chiede di essere capita subito. Ti sfida. Ti corteggia. Ti cucina piano.
E tu, se sei fortunato, torni. Il coniglio all’ischitana non si dimentica. Ti rimane in bocca, nei sensi, nei gesti. Come un ricordo d’estate, o una voce familiare che ti chiama da lontano. Non è solo cibo. È appartenenza. E a ogni boccone, un piccolo ritorno a casa.
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