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giovedì, Aprile 18, 2024

Giacomo Retaggio: «Pasqua senza il Venerdì Santo, non dice nulla»

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Leo Pugliese | Da oltre un anno, sui mesi che precedono la settimana santa e il venerdì santo, è calato il silenzio. Fitte tenebre come ebbe a dire Papa Francesco, un anno or sono, si sono impadronite delle nostre strade.
A due settimane dall’alba più mistica che l’isola vive da 400 anni, qualcosa appare fermo. Immobile. Come un orologio a cui è viene tolta la batteria e le lancette smettono di segnare il tempo.
Da oltre un anno, allora, il tempo passa attraverso solo i ricordi dei mesi e delle settimane che precedevano i riti pasquali, tra video e dirette, audio, vecchie cassette e nel cuore di chi da sempre ha vissuto quei momenti.
Come lo scrittore e medico Giacomo Retaggio che nelle scorse ore dal suo profilo social ha voluto fotografare quanto è duro da digerire questo periodo per ogni procidano.
«Ebbè, che volete, chiamatemi anche stupido o “nzallanuto”, ma a me la Pasqua senza il Venerdì Santo, i suoi riti e soprattutto la Processione, non dice niente. E’ un giorno come un altro. Lo so che sbaglio, che teologicamente non sono abbastanza evoluto perché la Pasqua festeggia il Cristo risorto, il Cristo vivo nell’Eucarestia, ma io non ci posso fare niente: rimango inerte, senza passioni, senza sentimenti, in una sorta di anestesia mentale.
Certo in tutto questo probabilmente è la mia parte passionale che prende il sopravvento, ma continuo a non poterci fare nulla: a me Pasqua senza il Venerdì Santo come sono abituato a viverlo da sempre non dice nulla.
Questi sono i giorni in cui la sera tendevo l’orecchio per cercare di sentire lo squillo della tromba calcolando da dove veniva il vento. Adesso è silenzio. Un silenzio pesante che non è segno di tranquillità, ma di angoscia. Un’angoscia intima che pervade tutta la persona, in apparenza senza nessuna spiegazione. Che sarà questo magone che mi stringe dentro? A chi lo partecipo? C’è qualcuno in grado di capirmi? Mi vengono in mente quei momenti in cui da giovane, stando lontano da Procida in questo periodo e provando le stesse sensazioni che provo oggi, tentavo di confidarmi con qualche amico.
Ma questi mi guardava stralunato e mi dava del matto. Lui non poteva capire e difatti non capiva. Io rimanevo solo, chiuso nel mio intimo magone. Essere Procidano fuori dell’isola in questo periodo è doloroso. Ed è doloroso per due motivi: uno è che si prova una nostalgia terribile e l’altro è che bisogna anche fingere e far finta di niente scherzando e parlando del più e del meno. Poi con il passare degli anni mi resi conto che i naviganti, a bordo, lontani da Procida, provavano le stesse sensazioni mie. Ed anche loro dovranno fingere perché anche lì nessuno li capiva.
E’ una sorta di maledizione che noi Procidani ci portiamo appresso: la maledizione del Venerdì Santo. E allora come volete che io, da sempre abituato a provare certe impressioni e certe sensazioni, possa vivere questo periodo di Quaresima senza i suoni, i rumori, l’atmosfera del Venerdì Santo? Di questi tempi nella congrega dei Turchini c’era il flusso dei ragazzi e dei giovani che si andavano a iscrivere per portare il Mistero; e venivano i genitori che avevano i figli piccoli che dovevano fare gli angioletti; e quelli, i cui figli erano più grandicelli a prenotarsi per la crocetta o un Calvario in miniatura o un vassoio con i trenta denari. C’erano! ora sono due anni che non c’è più questo flusso di gente.
E’ come se fosse finita un’epoca. Si è avuta una rivoluzione radicale. Dicono che l’anno prossimo non sarà così perché la pandemia sarà passata. Dicono….speriamo che sia vero! Intanto due anni sono andati persi. Io ho un nipote che ha tre anni: l’anno scorso non si è vestito da Angioletto e quest’anno non porterà la crocetta o i trenta denari. Questo bambino ha perso qualcosa dello spirito procidano e lo ha perso per sempre. Peccato, però!
Questi erano i giorni in cui in Congrega si tenevano le prove del “Miserere”. Cari confratelli con le vostre voci rudi . maschie, ma piene di un sentimento antico che vi scende “per li rami”, continuate a cantare, vi prego. Vi seguirò anche con il pensiero. Il “Miserere” è un canto dolcissimo, colmo di un pathos profondo, che ti permea fi nell’intimo più profondo. Vi prego, continuate a cantare, anche da soli o con pochissima gente. Almeno questo!»

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