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sabato, Aprile 20, 2024

Don Giovì, 50 anni di cattolicesimo on the rock

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Forio in tripudio per i 50 anni di parroco a San Vito di Mons. Giuseppe Regine, da tutti affettuosamente chiamato Don Giovì: “Il Parroco”, scritto con la maiuscola.

Luciano Castaldi | Forio in tripudio per i 50 anni di parroco a San Vito di Mons. Giuseppe Regine, da tutti affettuosamente chiamato Don Giovì: “Il Parroco”, scritto con la maiuscola.

Vorrei approfittare di questa grande figura di sacerdote per provare a ragionare sui profondi stravolgimenti che il mondo e la chiesa hanno vissuto in questo ultimo mezzo secolo. Credo, infatti, che la perseveranza, l’esempio, la testimonianza di preti alla don Giovì siano importanti anche e soprattutto per meglio comprendere un’attualità sempre più confusa e confusionaria. Siamo stravolti dalle incertezze in un mondo ormai caratterizzato dallo sradicamento, dall’evanescenza culturale e morale, dal nomadismo esistenziale, intanto che, per limitarci al campo religioso, vere e proprie eresie si sono fatte strada, passando dalle cattedre delle università di teologia alle cattedre dei successori degli apostoli.

Con grande efficacia, nel suo discorso alla Curia Romana del 20 dicembre 2010, Benedetto XVI paragonò la crisi del nostro tempo a quella che nel V secolo dopo Cristo, che vide il tramonto e il crollo dell’Impero romano.
Le analogie tra le due epoche sono reali: se l’Impero romano crollò a causa delle invasioni barbariche, ma in primis per il suo disfacimento interno, pure oggi la nostra civiltà è sottoposta a una crescente pressione dall’esterno, mentre soffre, all’interno, un’angosciante situazione di disgregazione morale, culturale e sociale.

I due momenti storici, tuttavia, conservano una differenza di fondo: nel periodo buio delle invasioni barbariche, la Chiesa riuscì ad affermarsi come l’unico centro di ordine e di stabilità nel caos generale. Oggi, invece, la stessa è sotto attacco e appare ancor più sofferente, indebolita, divisa. Non si erge, come allora, sui marosi della storia, ma ne sembra travolta, “il vortice dell’autodistruzione la lacera” (Ratzinger), e, per ammissione delle sue stesse autorità supreme (vedasi anche Paolo VI e Giovanni Paolo II), attraversa una delle più profonde crisi intra moenia della sua esistenza.

Alla fine dello scorso millennio, il famoso sociologo di origini polacche, Zygmunt Bauman, pubblicò “Modernità liquida”, un saggio destinato a segnare un vero e proprio spartiacque nel dibattito sociologico, antropologico e culturale. Il concetto di “liquidità” divenne, difatti, un vero e proprio tormentone, prima intellettuale poi mediatico: società liquida, “amore liquido, vita liquida, arte liquida, sorveglianza liquida, paura liquida, chiesa liquida e via liquefacendo”. Un mantra insistente da cui non ci siamo più liberati e che nessuno mette in discussione. Non a caso è uno dei rari autori letti e citati da Papa Bergoglio. Assistiamo di conseguenza alla riduzione della fede cristiana ad antropologia. Non per niente la teologia e la filosofia, lasciano il posto alla sociologia pop, magari radical-chic, come fu, appunto, quella di Bauman, il quale dall’utopia comunista passò facilmente e rapidamente a quella radicaleggiante.

Come mai ho voluto fare questo prologo?
Perché sempre più insistenti e prepotenti s’impongono le figure di preti ondivaghi (sotto tutti i punti di vista), deresponsabilizzati, perenni “nomadi sedevacantisti parrocchiali”; ballerini che vanno di qua e di là, tutti presi da un irresistibile (quanto spesso vuoto) attivismo, come alberi senza radici e senza legami con la propria terra. La chiesa in cammino diventa così il pretesto per svincolarsi dal gregge e cioè dalle famiglie, dai poveri (quelli veri), dagli ammalati. La Chiesa ridotta ad un’organizzazione umana come tante altre che pensa ai convegni, alle kermesse, che programma l’accorpamento delle parrocchie e persino delle diocesi, cancellando secoli e secoli di fede, tracimanti nella storia, nella cultura, nella vita. Tutto all’insegna del funzionalismo, del razionalismo, dell’utilitarismo, dell’economicismo.

Dunque un prete (o, perché no, anche un laico) vale l’altro, importante è che intrattenga la platea. Un prete-amministratore anche per pochi mesi. Un manager, foss’anche per corrispondenza. E così, liberato da ogni legame definitivo con la Comunità, oberato di impegni (burocratici, pseudo culturali e pseudo pastorali di ogni tipo), il sacerdote-pastore-manager finisce con lo smarrire il gregge.

Un tempo invece il prete sapeva tutto di tutti. Era forse l’unico in grado di ricostruire l’albero genealogico, ricorrendo unicamente alla sua memoria. Era lo stesso che ti battezzava e poi ti accompagnava, a Dio piacendo, per l’intera esistenza.

Oggi il prete s’è messo a correre affannosamente dietro le ultime novità, dietro l’ennesima utopia falsamente umanitaria ed ha perso di vista l’essenziale. Ha cioè dimenticato l’unica cosa che conta: e cioè che è l’amministratore delle cose di Dio. Egli è essenzialmente incaricato di celebrare il mistero pasquale, l’Eucarestia, e di riconciliare i peccatori con Dio. E, come un padre è per tutta la vita, così è (o dovrebbe essere) il parroco. La parrocchia quindi come una famiglia nella quale la menzogna, il sofisma, l’errore, la vanità, le bravate di uno non possono sfuggire agli sguardi degli altri e, per correzione, si denunciano in maniera quasi immediata. Nessuno può illudere, o in famiglia fare di sé un personaggio. Non così accade nelle società troppo grandi dove è perduto ogni raccordo. “Si capisce – scrive Marcel De Corte – perché gli sradicati sono tutti utopisti: la loro intelligenza non ha più un luogo, non si esercita più con l’assistenza delle cerchie naturali all’essere umano, evade nelle nubi dell’immaginario (…). Sotto questo aspetto, il prete, che una vocazione superiore “sradica”, se non prende nuovamente radice umilissimamente nel soprannaturale, diviene per eccellenza agente di dissolvimento e distruzione del mondo e dell’uomo, l’utopista, il rivoluzionario protetto, il sobillatore di prim’ordine delle folle, insuperabile”. Purtroppo molti preti, come ha scritto il cardinale Robert Sarah, “hanno come il timore di sembrare fuori del mondo. Sono preoccupati di aprirsi al mondo di comprenderlo. Sono immersi nel mondo e finiscono per affogarvi”. “Come si può avere una visione ragioneristica ed economicistica del sacerdozio?” si chiede ancora Sarah. “I sacerdoti desiderano che le loro azioni siano efficaci, apprezzate e valutate secondo criteri mondani. Ma la sola azione che bisognerebbe quantificare è la preghiera. Un sacerdote – continua Sarah – non deve preoccuparsi di sapere se è apprezzato dai suoi fedeli. Deve semplicemente chiedersi se egli annunci la Parola di Dio, se la dottrina che insegna è quella di Dio, se realizzi pienamente la volontà di Dio”. “L’attivismo atrofizza l’anima del sacerdote”. Drammatiche e terribili le parole di Charles Péguy raccolte in “Etica senza compromessi” e riportate dallo stesso Sarah nel suo ultimo libro “È sera e il giorno ormai volge al declino”: “I preti non credono a nulla, con credono più a nulla è l’espressione oggi divenuta corrente, l’espressione generalmente adottata, e che, sfortunatamente, si rivela ingiusta solo per alcuni. Dicono: ‘È il male di questi tempi’. Non esiste un male di questi tempi. È il male dei preti. Tutti i tempi appartengono a Dio, ma sfortunatamente non tutti i preti. Le enormi responsabilità che essi dovranno sopportare fanno paura; forse sono i soli a doverle portare. L’inaridimento dell’albero, l’inaridimento della città spirituale non è stato affatto causato dai laici, ma unicamente dal clero”. Concludeva Péguy: “Essi vogliono che il cristianesimo progredisca. Stiano attenti! Stiano attenti! Vogliono che il cristianesimo progredisca, ma ciò potrebbe costare loro caro, molto caro, molto caro. Il cristianesimo non è una religione di progresso, non lo è affatto; e ancor meno – se possibile – una religione del progresso. È la religione della salvezza”! Ecco, i laici si aspettano dai sacerdoti che dicano loro con chiarezza e senza ambiguità, fermezza e sollecitudine paterna, non le loro opinioni, ma la dottrina di Dio. È proprio per queste ragioni, anche ed in special modo nella consapevolezza dei momenti drammatici che stiamo vivendo, che svettano i santi ed i giganti della storia. Ed è proprio in contesti così deprimenti che maggiormente emergono e si esaltano (nella loro umiltà) le qualità umane e cristiane di chi non si è mai lasciato lusingare dalle sirene del successo, della mondanità, della contingenza. E noi, come “Il naufrago” di Giovanni Maltese, ci aggrappiamo a queste rocce, al loro luminoso insegnamento e al loro paradigma, poiché siamo più che mai convinti che, ben al di là dei facili slogan alla moda, delle nuove ecclesiologie e dei nuovi modelli propinati, la Verità sia una sola e che essa, come recita un proverbio africano, è come l’olio: puoi mescolarla con l’acqua fin che vuoi, ma prima o poi torna a galla. “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”, dice Gesù, il quale fondò la sua chiesa su Pietro, invitando Simone (che diventa satana quando non pensa secondo Dio, ma secondo gli uomini) ad allontanarsi da lui e a non dare più scandalo.

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