Pare che il centrodestra nazionale si sia finalmente ricordato dell’esistenza della Campania. È successo all’improvviso, come quando ti accorgi di aver dimenticato una bolletta nel cassetto: un sussulto tardivo, un gesto dovuto più che convinto. E così, a un mese e mezzo dalle elezioni, prende forma — o almeno si vocifera — la candidatura di Edmondo Cirielli a presidente della Regione, per ora indicata da Fratelli d’Italia ma non ancora accettata da tutti gli alleati con la consueta conferenza stampa o comunicato congiunto.
Nulla da dire sull’uomo: politico di lungo corso, dirigente di partito, presenza solida e riconoscibile in un panorama spesso liquido. Cirielli ha storia, appartenenza e radicamento territoriale. È, per così dire, un candidato “vero”.
Ma il problema, semmai, non è chi si candida: è quando e perché lo si fa.
Perché arrivare a definire un nome di peso a poche settimane dal voto non è un colpo di scena, è un sintomo. È la prova, neanche troppo mascherata, che la Campania è stata archiviata in anticipo tra le battaglie considerate “perse in partenza”, così come predico ormai da mesi e mesi da queste colonne e dai miei profili social. Mentre in Liguria, Marche e Calabria le candidature erano già pronte e condivise da tempo, lanciate mesi prima con tanto di apparati e campagne più o meno coordinate, qui si è preferito temporeggiare. O, più semplicemente, disinteressarsi.
Il centrodestra nazionale, evidentemente, ha deciso di concentrare risorse e strategie altrove, forse convinto che il destino della Campania fosse già scritto. Forse per valutazioni territoriali su una classe dirigente tutt’altro che all’altezza del compito di mantenere alti i livelli di coinvolgimento della base, forse per accordi di equilibrio più alti, magari anche per quei taciti patti spartitori che in politica non si firmano mai, ma si rispettano sempre. Del resto, la politica è fatta anche di geografie invisibili, e in certe cartine la Campania sembra collocata ai margini, tra le regioni “difficili” su cui non vale la pena sprecare energie.
Cirielli arriva quindi come un generale esperto chiamato a guidare una truppa stanca, senza logistica né tempo per organizzarsi. Una candidatura seria in un contesto che, a guardarlo bene, non lo è mai stato davvero. È il paradosso perfetto: affidare a un esponente di peso una missione che la stessa coalizione, implicitamente, considera impossibile. E chissà come la metteranno, a Palazzo Chigi, con i suoi incarichi di governo…
E così si mette in scena la solita rappresentazione del “ci siamo anche noi”, che non entusiasma nessuno ma serve a salvare la faccia. Perché la Campania, si sa, è un territorio dove si perde con dignità, purché senza disturbare troppo gli equilibri di palazzo. Naturalmente nessuno lo dirà apertamente: si continuerà a parlare di “sfida aperta”, di “campagna elettorale sprint”, di “territorio strategico”, ma la verità è che la partita sembra già decisa nei corridoi romani prima ancora che nelle urne campane.
E questo, più che un errore, è ormai una consuetudine: quella di considerare la vecchia “Felix” come un laboratorio di statistiche, non di ambizioni politiche. E io, personalmente, di questo genere di atteggiamento tutt’altro che politicamente vero non ne posso proprio più!
Alla fine, la candidatura di Cirielli rischia di essere letta più come un atto di cortesia istituzionale che come un progetto di cambiamento. Un “presente!” detto a voce bassa in un appello a cui nessuno crede più davvero. Eppure, paradossalmente, proprio in questo scenario così disilluso, può nascondersi un briciolo di autenticità. Quando non c’è nulla da perdere, la politica torna un po’ più sincera. Forse non vincente, ma almeno vera. E in un’epoca di costruzioni mediatiche e slogan precotti, anche questo (bisogna ammetterlo) è già qualcosa.









