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giovedì, Aprile 18, 2024

APRONO MUSEI, CHIUDONO LE CHIESE | #chieseaperte

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Luciano Castaldi | È questo il tempo nel quale i laici sono più preti dei preti, e i preti più laici dei laici.
I primi, e sempre più spesso senza neppure essere stati investiti del necessario “Ministero straordinario”, ce li troviamo sull’altare a presiedere ai momenti di preghiera, a giocare con il tabernacolo, a toccare, prendere e distribuire l’Eucarestia (e qui non c’entra nulla la carenza di sacerdoti); i secondi che giocano a fare i consiglieri comunali, i conduttori televisivi, i tour operator…

Assistiamo cioè ad un vero e proprio ribaltamento di piani, ruoli e funzioni che lascia davvero senza fiato. E tutto ciò per continuare un’assurda quanto insensata – oltre che ridicola- rincorsa ad abolire tutto ciò che è sacro. Un tempo veniva insegnato che ciò che distingue il prete da tutti gli altri uomini sono le sue mani consacrate. Il prete moderno si affanna a sembrare come gli altri. È, appunto, moderno e soffre all’idea di doversi occupare di Messa e Liturgie perché queste lo distraebbero dagli altri impegni. Insomma, non vede l’ora di dare sfoggio a tutta la propria capacità manageriale, organizzativa, comunicativa. Lo vediamo tutti i giorni, anche qui sulla nostra isola, ove, unitamente a tante altre tendenze, è sbarcata anche quella di inaugurare sempre nuovi musei. Nulla di male, sia chiaro, se non fosse che dietro questa nuova moda si annidino anche alcuni rischi e pericoli che non si possono sottacere. Rischi, chiaramente, di ordine spirituale e “culturale”, perché su quelli economici – mi pare evidente- nessuno perderà mai un centesimo dalle proprie tasche. Il museo, come ha opportunamente notato lo studioso del fenomeno Angelo Crespi, è diventato il “viagra” delle città, in grado (così si spera) di “innalzare” e rivitalizzare il sex appeal di quartieri poco attrattivi o di centri storici logorati dal tempo. Analogamente, sembrano ragionare certi “addetti alla cultura” in clergyman (già negli anni ’80 Battiato, quelli in cravatta, voleva mandarli in pensione, chissà cosa direbbe oggi… dinanzi a certi spettacoli).
Giova forse fare un passo in dietro nella storia. I musei nascono, sull’onda dell’illuminismo settecentesco, come delle vere e proprie “chiese laiche”. Ne è convinto Jean Clair (scrittore e storico dell’arte) quando, dovendo criticare il nuovo mirabolante progetto del Louvre ad Abu Dabi (e in generale tutte le realizzazioni di nuovi musei di arte contemporanea) rimpiange i tempi passati.
L’arte, come ricorda Angelo Crespi, ha un’origine metafisica, l’idea che ci spinge da millenni a rappresentare la natura e l’uomo a pensare in maniera “verticale”, cioè ad un essere che lo sovrasta, potente, se non proprio onnipotente, regolatore, creatore, eccetera. Per questo l’utilizzo delle immagini è strettamente legato alla religione, cioè alla venerazione di quell’essere. La bellezza dipende, quindi, sin dalle origini, da un culto. E la parola “culto” mantiene – nel suo etimo da colere, coltivare- la componente terrosa (il culto sarebbe una radura disboscata, dissodata nella buia foresta delle origini, una radura dove l’essere appare), ma anche resiste il legame con la magia, il mistero. Da qui, l’antica usanza delle chiese di innalzare le immagini sacre a vere icone miracolose da far baciare ai fedeli o portare in processione, con la certezza che potessero far guarire gli ammalati, dare conforto agli afflitti, liberare gli indemoniati, sanare dalle pestilenze (la qual cosa oggi è del tutto esclusa, e proprio dagli stessi preti). Dal “culto”, dalla venerazione delle cose sacre, tipica della religione, si è passati alla venerazione della “cultura” tipica dei musei.
“Dalle cose miracolose – scrive Crespi- si è passati a quelle da ammirare, le così dette mirabilia, che sono appunto le opere d’arte”.
Il museo ha, di fatto, privato le immagini del loro incanto, della magia che trasmettevano, incarnando comunque, dal Settecento in poi, una certa tensione “laica”, di un luogo in cui si depositano e conservano le memorie di una nazione e attraverso il quale si trasmette la più alta idea dell’uomo e dei suoi ideali. Già questo dovrebbe essere sufficiente per non accodarsi alla platea degli entusiasti della musealizzazione in genere e dell’arte sacra in particolare.
Ma a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, è avvenuto un ulteriore slittamento che non può non allarmare i credenti: si è passati cioè dalla parola “cultura” alla parola “culturale” per definire l’ambito di esercizio di un museo. “L’uso di culturale – annota Jean Clear- significa la fine della cultura. La cultura è una, il culturale è plurale. La cultura è una qualità, un’identità che unisce e innalza. Il culturale disperde, sparpaglia, degrada, squalifica e ci fa ripiombare nei numeri, con la pesantezza del quantitativo: i beni culturali, gli attori culturali, gli ingegneri culturali, i giacimenti culturali, le industrie culturali… La cultura, fedele alla sua origine, era il culto, la fondazione del tempio, e, letteralmente la nascita della “con-templazione”, la delimitazione di un luogo sacro nello spazio e la fedeltà a questo luogo. Il culturale è l’esportazione, il commercio, la politica delle banche. Un tempo capitava di incappare in uomini di cultura. Oggi non si incontra null’altro che funzionari culturali”.
Questo è importante! Lo slittamento culto-cultura- culturale, o per meglio dire sacro-profano-ludico, spiega alla perfezione lo stato attuale (pensiamo alla pornocrazia elevata a modello artistico). Ancora Clair: “Il culto aveva intessuto, tra l’uomo e le sue divinità, un legame verticale che andava dal basso verso l’alto. La cultura aveva intessuto, tra l’uomo e gli altri uomini, una trama orizzontale. Il culturale è di nuovo verticale, ma in senso opposto. Così concepita la cultura finisce allo stesso rango dello scarto, del cascame, dell’immondo, dell’escrementizio. Materializza la vecchia equazione dell’oro e delle feci, ciò che viene monetizzato, si noleggia e si vende”.
Interessante qui notare come, se un tempo la parte sottostante alle chiese era destinato alle cripte dei santi e alle reliquie (il loro sangue, i loro corpi l’humus sul quale fioriva la fede), oggi esse sono progettate per ospitare sale multifunzione e supertecnologiche. Se poi ciò viene associato alla crisi profonda in cui versa l’arte sacra contemporanea (pensiamo chiese moderne, del tutto simili, all’interno e all’esterno, a garage, rimesse, pub, supermercati, banche…) il quadro è completo.
Intanto però che si inaugurano mostre e musei (siamo o non siamo una realtà turistica bisognosa della pillolina blu? Abbiamo, o no, i giovani delle cooperative vicine al “movimento”, da sistemare?), le nostre vecchie e care chiese – ricchissime di arte, storia, fede, cultura- vengono chiuse o abbandonate. È vero: ogni tanto un restauro qua e là, ma con obiettivi “culturali” (vedi sopra), non certo “cultuali”.
Prosegue, anzi, l’azione eutanasica di antiche sedi parrocchiali. Tutto, si capisce, fatto con amore. Con lo stesso sorrisino di sempre. Quello, per capirci, stile clinica svizzera. Già, il sorrisino di chi stacca il tubicino.

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