La POLPA E L’OSSO di Francesco Rispoli | Io non ho avuto una vita. Non ricordo. Gli emigranti non ci riescono. Di quel singolare, “la vita”, noi, incalzati dalla storia universale, siamo stati defraudati.
G. Anders, L’emigrante, 2022
“Uprooted” (Sradicato) è un’installazione di Doris Salcedo alla Sharjah Biennial 15, “Thinking Historically in the Present”. Una casa “monumento” fatta con centinaia di alberi che esplora la fragilità dell’insediamento e dello spostamento: alberi morti che formano la sagoma di una casa.
Nota per affrontare i traumi politici attraverso oggetti domestici, l’artista colombiana crea una struttura impenetrabile dove radici nodose e blocchi di legno aggrovigliati simboleggiano la perdita e la migrazione forzata. Riflettendo sulle crisi globali – dalla guerra ai disastri ambientali – “Uprooted” evidenzia il legame che va dissolvendosi tra umanità e natura, evocando un senso di isolamento e rottura.
Ogni emigrazione è una rottura di fondo nella vita. Sradica una persona, la rende priva di voce, sola e invisibile. Autori come Günther Anders hanno raccontato la vergogna sperimentata nelle proprie esistenze da esuli, vittime della persecuzione nazista, costretti a emigrare perché ebrei. L’emigrante non vede se stesso come “immigrato”, proiettato su un luogo di arrivo, ma sempre in relazione alla propria origine e al proprio passato perduti.
Nel nostro cattivo presente la fuga e l’esilio non sono più casi isolati o estremi ma esperienze diffuse. Come è possibile oggi una disposizione ad ascoltare il vissuto di chi è “incalzato dalla storia”, a comprendere con attenzione la sostanza dell’esperienza dell’emigrante?
Occorre andare direttamente al cuore dei problemi più crudi e crudeli connessi alla miseria dell’emigrazione: di quella che i migranti subiscono e di quella a cui non dovrebbe essere indifferente chi si ritrova nelle mani il potere di concedere loro il “permesso di vita”.