La missione di Greta Thunberg con la Madleen, al secolo “Flotilla della Libertà”, ha impiegato veramente pochissimo per assumere i contorni dello spettacolo politico: l’attivista ha dichiarato di schierarsi a favore della popolazione palestinese parlando della vicenda come di una “tragedia silenziosa”, sottolineando il “periodo di passività mortale” delle potenze occidentali . Al momento della partenza, le telecamere e i media mainstream hanno riversato in massa il racconto “in diretta”, contribuendo a trasformare l’impresa in una operazione di marketing politico.Peccato che appena dieci giorni dopo la partenza, la Madleen viene intercettata da unità israeliane. Greta viene deportata, mentre per alcuni compagni scatta l’arresto.La critica di molti paesi occidentali (come dello stesso Israele) hanno descritto l’operazione una sorta di “selfie yacht” e una “provocazione politica” che veicola immagini e slogan più che cibo e medicine (“meno di un camion di aiuti”, come ha scritto il NYPost). Altri editorialisti israeliani e statunitensi hanno stroncato l’episodio, parlando di sceneggiata programmata, carenza di genuini intenti umanitari, e perfino di nuovo un uso strumentale dell’ormai meno giovane figura Thunberg per scopi propagandistici.Pur comunicando il proprio pensiero con la solita, decisa fermezza, contrariamente al passato, Israele non ha usato alcuna violenza verso la ciurma Thunberg, né danni alla barca, né feriti, né morti. Immagini ampiamente diffuse hanno mostrato il personale israeliano fornire acqua e cibo come nei più classici interventi ampiamente sotto controllo. Ma al centro del dibattito c’è la solita domanda: chi muove i fili? Il volto della Thunberg sembra ormai archetipico nell’industria della comunicazione globale, con alle spalle donazioni, ONG, ONG strumentalmente collegate all’industria verde e a una conseguente, fruttuosissima economia circolare. Secondo alcuni analisti, l’attivista svedese non appare più come una voce libera, ma un contenitore sulle cui etichette vengono applicati messaggi imposti da lobby, aziende e gruppi politici. Così come desta qualche perplessità il coinvolgimento di Zaher Birawi, accusato di legami con Hamas e presente nell’organizzazione della missione, ingenerando più di qualche dubbio sulla matrice prettamente umanitaria e apolitica della missione, che comunque si rivolge alla questione mediorientale in modo partigiano e non certo bidirezionale, come la neutralità di queste iniziative imporrebbe.A mio giudizio, la missione ha fallito e la testimonial è ampiamente “passata di punto”, per dirla come dalle nostre parti. Tuttavia, sul piano mediatico, l’operazione ha ottenuto ciò che voleva: discussioni globali, interviste e coperture che tentano di rilanciare il marchio Thunberg e le politiche ambientaliste globali. Ne risulta un caso di marketing geopolitico: una figura – ormai istituzionalizzata – che diventa ambasciatrice simbolica di una causa fragile e di fatto poco credibile a chi ha ancora un po’ di sale in zucca. In altre parole, un mezzo per amplificare contrapposizioni ideologiche, ma anche le contraddizioni di un’attivista anti-inquinamento che, ipocritamente, viaggia in aereo dopo aver condannato i voli. Un’operazione a metà strada tra show e politica, tra denuncia e selettività, tra filantropia e propaganda.Per concludere, ritengo che ancora una volta Greta Thunberg, nella sua versione “Palestina”, rappresenti un fenomeno più mediatico che sostanziale. Un’estetica politica ben confezionata con un messaggio selettivo, che privilegia il microfono ai fatti, l’immagine al contesto. Il suo ritorno non amplia drammi o soluzioni: li circuisce. Ecco perché – se davvero si cerca chiarezza – bisognerebbe chiedersi non cosa Greta dice, ma chi ne sostiene il megafono, e perché.
A volte ritornano. Ma… perché? | #4WD


Daily 4ward di Davide Conte del 11 giugno 2025
