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sabato, Aprile 20, 2024

“Pagliacci”, Désirée Migliaccio conquista il Teatro San Carlo di Napoli

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Studio e passione, sacrificio e tanta caparbietà. Questa è la strada da percorrere per riuscire a realizzare i propri sogni. Come sta facendo la nostra Désirée Migliaccio, soprano al Teatro San Carlo di Napoli. La sua storia, bellissima particolare, ve l’avevamo raccontata nel periodo natalizio quando, emozionatissima, ci aveva reso partecipi dei tanti step che l’hanno condotta a questo prestigioso contratto ambito da artisti di tutto il mondo.

Oggi vi riparliamo di Désirée Migliaccio per una nuova, splendida, notizia: la realizzazione dello spettacolo “Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo, opera che la vede tra i colorati protagonisti sempre presenti sul palco.

Con un bellissimo trucco che le colora metà viso come, appunto, un tragicomico pagliaccio, il cappello chiaro a punta e un vestito colorato con le sfumature di blu, Désirée sta collezionando applausi su applausi assieme ai suoi bravissimi colleghi.

Eccola in alcune foto di scena, sorridente più che mai.

L’OPERA

Si legge su www.connessiallopera.it: “Rimasta intatta nella sua delicata magia in sospensione funambolica e poeticissima tra il fittizio e il reale, la maschera e l’inconscio grazie al gioco di esatti equilibri fra siparietti, parole e canto, suoni, luci e costumi, acqua e acrobazie verticali, così come in partitura ben suggeriscono i colori e il dualismo in frizione fra il dato ritmico e le disposizioni tonali, piace oggi forse ancora di più la produzione dei Pagliacci di Ruggero Leoncavallo firmata e presentata otto anni e mezzo fa dal fantasista e singolare regista prestato alla lirica Daniele Finzi Pasca per il Teatro San Carlo di Napoli, in tandem virtuoso con la Fondazione Campania dei Festival.

È tornato infatti con ulteriore successo, con diversa bacchetta e soprattutto altro cast, il fortunato allestimento già ampiamente applaudito nel luglio 2011 in special modo in virtù della bellezza e particolarità della forma affidata, oltre che all’invenzione dell’eclettico autore attivo per le Cirque du Soleil e al fianco della moglie Julie Hamelin Finzi quale creative associate, ora come allora alle stilizzate ma assai efficaci soluzioni sceniche di Hugo Gargiulo, fatte di acqua vera, cromie fondenti e luci perfette (disegnate dallo stesso Finzi Pasca e da Alexis Bowles), alle raffinate coreografie di Maria Bonzanigo abilmente modulate in versione acrobatica dall’assistente alla regia Paolo Vettori, al colpo d’occhio dei notevolissimi costumi di Giovanna Buzzi e al make up della designer Chiqui Barbè. Un gioco, quello ideato da Finzi Pasca avvalendosi e dunque intersecando le competenze di un’ottima squadra di artisti, tecnici, assistenti ed acrobati, che guarda senz’altro al Verismo e alle intuizioni pre-pirandelliane, ma con l’incanto sospeso del sogno e con la moderna sensibilità dei nostri giorni, così come scolpito a partire da quella grande immagine un po’ retrò che ritrae sul rubino velario centrale il compositore partenopeo al suo pianoforte, fra un paio di incipit nodali tratti dal secondo atto del libretto e sulle antiche note da lui stesso suonate in riproduzione digitale grazie a una registrazione fonografica su rulli del 1905. Immagine che separa uomini, saltimbanchi e personaggi; prologo, opera e metateatrale canovaccio dell’arte, come per attraversare su diversi binari drammaturgici una nota storia di sangue e cronaca realmente accaduta e indirettamente vissuta nella Calabria remota di Montalto Uffugo. Per poi legare il tutto al pubblico stendendo al termine, dal palcoscenico verso la platea, una lama di luce quando il furente omicida Canio-Pagliaccio annuncia sardonico e disperato la fine della Commedia.

C’è dunque la realtà comune, quella dei protagonisti maschili in frac e di Nedda in abito fiorato semplice, che si distingue o si unisce tanto alla folla del Coro di clown, dai costumi su fondo bianco-latte con glitter brillanti e magnifici, quanto agli attori e acrobati in nero, intenti a moltiplicare e a svelare le pieghe dell’inconscio oltre che i sorprendenti virtuosismi senza rete, fra piatti, cerchi e trapezi, di uno stilizzato teatro funambolico sospeso nell’aria o giù nell’acqua scalciata sul pavimento e, pertanto, finita persino in buca su timpani e grancassa. E poi c’è il codice dei simboli – su tutti, si citano le strisce del sangue, di sola luce sul fondale nero e nei nastri delle acrobate-attrici al suolo e in sequenza unitamente all’uxoricidio – accanto al rimbalzo serrato fra i diversi registri lessicali, ossia fra un testo poetico a contenuti plastici e popolari quanto ricercato nella forma fra versi rari e per lo più sdruccioli (non dimentichiamo che l’autore Leoncavallo ebbe a laurearsi in Lettere a Bologna frequentando i corsi di Giosuè Carducci), le molteplici modalità espressive del canto e le risorse tematiche, timbrico-dinamiche, ritmiche e armoniche fra palcoscenico e buca.

Dettagli che non spiccano ma ben funzionano complessivamente nella salda e squadrata direzione musicale di Philippe Auguin, in passato assistente di Karajan e Solti, bacchetta ospitata dai maggiori teatri internazionali e, nell’occasione, per la prima volta maestro salito sul podio di Orchestra, Coro (preparato da Gea Garatti Ansini) e Coro di Voci Bianche (guidato da Stefania Rinaldi) del Teatro San Carlo. Pur scenicamente assai efficace, in relativa forma vocale il Coro nell’appiombo metrico e nell’omogeneità d’intonazione dei soprani, almeno rispetto a quanto garantito in passato sotto la direzione dei maestri Giacomo Maggiore, José Luis Basso, Andrea Giorgi, Ciro Visco e fino al più recente Marco Faelli.

Viceversa migliore la scelta e dunque la resa dei solisti rispetto alla première del 2011, con bel primato messo stavolta a segno dai due protagonisti: il tenore Antonello Palombi, senz’altro l’interprete più applaudito, cesella un Canio di alta scuola, di timbro chiaro e dallo stile antico, disegnato con legati mirabili e una molteplicità di accenti volti a scoprire, entro la sua intensa linea di canto, significati e pulsioni, respiri, colori e in special modo l’antinomia fra persona e personaggio valorizzando sillabati nervosi, torniture cromatiche, lunghi suoni. Lodevoli, in tale senso, già la ponderatissima costruzione con climax all’acuto ottimamente a segno nella prima scena con “Un grande spettacolo a ventitré ore”, di lì a seguire in crescente temperatura, qualità e consensi nel successivo Cantabile, nel suo celeberrimo arioso “Vesti la giubba” e fino al vertice drammatico e applauditissimo “No! Pagliaccio non son”. Di gran tempra e sostanza canora, quindi, la Nedda del soprano Maria José Siri, forte di un’intonazione infallibile e sempre intensa fin nei suoni più acuti, abile nel ritagliare con piglio e cura di sfumature le diverse sfaccettature canore presenti nel ruolo, passando dallo slancio genuino nella Ballatella della scena seconda ai duetti, oltre al vivo spessore impresso al tragico scontro finale con il marito, d’amore o di disprezzo rispettivamente interpretati a dovere accanto al Silvio apprezzabile del baritono Davide Luciano e all’infido Tonio di Lucio Gallo, altro baritono, di buon volume e prestanza scenica ma poco duttile nelle sezioni cantabili del suo fondamentale Prologo.

Buona infine la prova del tenore Alessandro Liberatore per Peppe-Arlecchino e dei due Contadini, Mario Todisco e Giuseppe Scarico. Bravi gli artisti ed eccellenti gli acrobati della Compagnia Finzi Pasca

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