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giovedì, Aprile 18, 2024

Le ultime 16 clarisse del Castello Aragonese d’Ischia rivivono nella mostra di Franco Lancio

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Elena Mazzella | La Chiesa dell’Immacolata, la cui cupola svetta e domina l’intera isola d’Ischia, ritorna ad ospitare, anche se simbolicamente, le ultime sedici clarisse vissute al Monastero.

Le prime monache clarisse arrivarono al castello d’Ischia nel 1577 nel convento fondato dalla Badessa Beatrice Quadra, vedova D’Avalos nel 1575. Sedici sono quelle che lasciarono definitivamente il monastero nel 1809 (trasferitesi poi nel palazzo Lanfreschi nel borgo di Ischia Ponte) a seguito della legge di secolarizzazione emanata da Gioacchino Murat, re di Napoli che fece abbandonare il convento definitivamente nel 1810.
A loro, e alle altre suore, è dedicato questo lavoro di purificazione fortemente voluto dai fratelli Cristina e Nicola Mattera: “E’ un’idea nata un pò per gioco e un pò per far rivivere la storia del Putridarium, l’ambiente funerario “provvisorio” posto al di sotto della chiesa dell’Immacolata”.

Il putridarium è il sotterraneo, generalmente di una cripta o sotto il pavimento delle chiese, in cui i cadaveri dei frati o delle monache defunti, venivano collocati entro nicchie lungo le pareti, seduti su appositi sedili-colatoio in muratura, ciascuno munito di un ampio foro centrale e di un vaso sottostante per il deflusso e la raccolta dei liquidi cadaverici e dei resti in via di decomposizione. Una volta terminato il processo di putrefazione dei corpi, le ossa venivano raccolte, lavate e trasferite nella sepoltura definitiva dell’ossario.

Allora il corpo, sottratto alla luce della vita terrena, veniva seduto sugli scolatoi, sedili che raccoglievano lentamente gli umori delle monache svuotandole definitivamente da ogni parte impura.

La storia narra che nel putridarium, il continuo modificarsi dell’aspetto esteriore del cadavere, che cedendo progressivamente le carni in disfacimento che costituiva l’elemento terreno contaminante, si avvicinava sempre più alla completa liberazione delle ossa (simbolo della purezza), intendeva rappresentare visivamente i vari stadi di dolorosa “purificazione” affrontati dall’anima del defunto nel suo viaggio verso l’eternità, accompagnata dalle preghiere delle consorelle che ogni giorno vi si recavano.

Silenzio, preghiera, castità, clausura era il cammino delle suore custodito tra le mura del convento fino alla loro morte.

Ricollegabile per certi aspetti all’antica credenza della “doppia morte” e alla pratica della “doppia sepoltura”, in Italia l’usanza dei putridaria si diffuse principalmente nel meridione (sostanzialmente nel territorio del Regno delle Due Sicilie), dove questi luoghi sono noti anche con il termine generico di “camere di mummificazione” o, più nello specifico, come “colatoi a seduta” (per distinguerli dai colatoi orizzontali) e, soprattutto a Napoli, con il nome di “cantarelle“.

La chiesa dell’Immacolata posta al di sopra del Putridarium, costruita e ultimata nel 1760 per volontà della badessa Carmela Battista Lanfreschi (la quale, per realizzare i costosissimi lavori, impegnò l’argenteria del monastero), accoglie dunque di nuovo le sue ultime monache, raffigurate iconicamente nel fantasma del loro abito su sedici teli sospesi espresse dall’arte di Franco Lancio accompagnate dalle installazioni sonore di Gian Paolo Vitelli.
Nella particolarissima e mistica rappresentazione di Lancio, il corpo, liquefatto in acqua limpida, sopravvive attraverso il guizzo di pesci rossi, fiammelle vive del loro spirito. Le parole della regola ammoniscono e delimitano lo spazio delle clarisse. Il suono delle gocce terse scandisce il tempo e avvolge lo spazio abbacinante della chiesa insieme alle voci del requiem di Ligeti.

Il ritmo irregolare dello stillare delle gocce richiama il liquefarsi in acqua limpida del corpo delle clarisse. Esso segue cicli temporali indipendenti le cui combinazioni aleatorie immergono lo spazio in un plasma sonoro tridimensionale, denso e mutevole.
A intervalli regolari allo stillicidio si aggiunge il canto della preghiera del requiem, il Lux Aeterna di Ligeti.
Le sedici voci soliste, tante quante sono le clarisse, cantano simultaneamente la stessa melodia e le stesse parole, ma ciascuna seguendo una linea indipendente di durata diversa.
Nello sfasamento continuo dei suoni, si perde la percezione dell’individuum in favore del tutto.

La mostra è visitabile tutti i giorni dalle ore 9 alle 18:30 fino al 7 luglio.

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