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venerdì, Aprile 19, 2024

La “mia” Chiesa

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4ward di Davide Conte

E’ stato bellissimo, domenica sera, rientrare nella Chiesa di Sant’Antonio dei Frati Minori dopo quasi tre anni e mezzo. In un sol momento mi si è proiettato innanzi agli occhi il film di una vita, la mia, che caratterizzata com’è stata da un esempio familiare di profonda pratica della fede cattolica, ha visto proprio in quella chiesa alcuni episodi indelebili della cui storia restano parte integrante.

La pratica del “chierichetto”, ai miei tempi, viaggiava di pari passo –giusto per fare un esempio- con il piacevolissimo rituale della partita a pallone nel giardino del convento, che specialmente nel periodo delle Quarant’ore, durava fino a pochi minuti prima dell’inizio della messa. A quel punto, abbastanza congestionati e trafelati, venivamo richiamati all’ordine per indossare la tonaca rossa e la cotta bianca e andare a servir messa. C’era un po’ di “nonnismo” anche tra i chierichetti: i più grandi d’età vantavano le procedure più impegnative, lasciando alle “reclute” quelle più semplici e meno appariscenti. Il suono del campanello alla consacrazione, le ampolle all’offertorio, il lavabo, la patena alla Comunione, il calice in sacrestia, venivano assegnati secondo un criterio d’anzianità che nessuno osava mettere in discussione, a meno di un intervento del ministro di turno che lo sovvertiva per necessaria equità. Per le letture, invece, subentrava il fattore timidezza, determinante per una selezione naturale tra chi salisse sul pulpito con maggiore o minore disinvoltura e proprietà di linguaggio e dizione. Memorabili, per chi se le ricorda, le salite verso il campanile, dove il questuante Frate Agnello Diligenza faceva di forza e ritmo le sue qualità innate per lanciare i rituali suoni quotidiani alla zona, attraverso il tiro dei due pesanti cordoni. E come dimenticare la radiolina portatile con cui Padre Carlo Catapano ascoltava le partite di calcio in diretta; o ancora, le corse per intravedere, da qualche parte nel convento, ‘u surd, un anziano signore dall’aspetto tipico del malato di mente, che forse proprio per la sua sordità, convinto di essere preso in giro da noi bambini che lo scorgevamo con estremo timore, ci minacciava con parole quasi incomprensibili costringendoci a scappare impauriti, ma che alla fine era assolutamente innocuo.

Ho conosciuto diversi “padre guardiano”, così come venivano definiti all’epoca i Priori o Superiori del Convento: ricordo vagamente Padre Emanuele Lombardi (che tornò ad Ischia dopo anni alle esequie della mia prozia Palmira), molto meglio Padre Attanasio Marotta (che mi sgridava quando, durante le processioni, mi tappavo le orecchie durante lo sparo dei fuochi in onore del Santo), poi Padre Amedeo Napolitano (quello che il compianto Pasquale Albano definiva affettuosamente, nel suo linguaggio, “u mò chià chià”, per il suo aspetto tutt’altro che smilzo stile Remigio da Varagine ne “Il nome della Rosa”), Padre Pino (del quale non ricordo il cognome e che ho incontrato dopo molti anni a Napoli al venticinquesimo anniversario di Suor Rosa Lupoli), Padre Giorgio Ascione (con la sua passione per l’arte) e, infine, il nostro “attuale” Padre Mario Lauro, al quale posso attribuire senza timore di smentita il merito per aver impresso alle attività della Chiesa di Sant’Antonio quella marcia in più che l’ha portato, nonostante mille difficoltà, a risultati straordinari in termini di partecipazione e di seguito; ma soprattutto, ad aver avuto la tenacia necessaria per concludere positivamente la lunga e inconcepibile gestione dei lavori della chiesa da parte di una burocrazia che avrebbe spazientito anche Giobbe.

Oggi la Chiesa di Sant’Antonio ha ritrovato tutto il suo antico splendore, ma soprattutto quella partecipazione popolare alle varie celebrazioni che la pur accogliente saletta retrostante, adibita a chiesa provvisoria, non poteva fisicamente contenere. Senza dubbio, anche recarsi ad ascoltare la Santa Messa richiede un minimo di comfort, affinché quell’ora di permanenza in raccoglimento non venga ad essere inficiata dalla stanchezza, in particolar modo per le persone anziane. D’ora innanzi, inoltre, si potrà tornare a pensare ad un progetto di sviluppo del turismo religioso anche dalle nostre parti, specialmente in virtù della presenza del corpo di San Giovan Giuseppe della Croce e del piccolo ma significativo reliquiario che Padre Mario è riuscito a comporre, grazie al placet dell’Ordine Provinciale, prelevando alcuni pezzi molto significativi dal Convento di Santa Lucia al Monte. Il nostro amato “zelluso”, nella storia dei Santi, ricopre un ruolo di primissimo piano, con un significativo seguito anche in terraferma. E sebbene qui da noi si predilige spesso il culto di canonizzati più famosi ed illustri, come ad esempio San Pio da Pietrelcina, la diffusione di Ischia tra gli itinerari di fede non è assolutamente difficile da attuare, anche tenendo conto della presenza dell’ex Hotel Sant’Antonio attiguo alla Chiesa ed ai grandi e quasi del tutto inutilizzati spazi e cespiti circostanti.

Dell’inaugurazione della Chiesa se n’è già parlato abbondantemente: una grande festa di fede a cui, stranamente, non ha partecipato nessun esponente dell’amministrazione comunale in carica. Tutti troppo impegnati nelle strategie elettorali, oppure qualche promessa di troppo poi puntualmente disattesa ha fatto optare per un’assenza strategica? Non mancherà occasione di scoprirlo. Intanto… evviva la “mia” chiesa!

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