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sabato, Aprile 20, 2024

Don Pasquale Sferratore: «La Chiesa di San Vito la merito io, ma…»

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Don PASQUALE SFERRATORE | Cari amici, non ho alcun interesse per andare a S. Vito, ma penso che ne avrei più diritto di altri, ecco il perché di questo articolo.
Non ho alcun interesse, perché a questo traguardo della mia vita, dopo cinquantanove anni trascorsi come parroco, penso a raccogliere le foglie del mio autunno, per tramutarli fiori, che non avranno primavere.
C’è un’opera lirica intitolata “I Pagliacci”, che inizia così: “Signori, signori, scusatemi – se da sol mi presento – io sono il Prologo, – poiché le antiche maschere – presenta l’ autore…”.
Ogni giorno noi indossiamo una maschera, secondo l’occasione, fatta di sorrisi o di pianti, di gioie e di dolori, di entusiasmi o di rimorsi, per narrare il fuoco, che brucia nel cuore, o il gelo che ci abbatte; per narrare le nostre sconfitte o le nostre conquiste, ossia la nostra storia di ogni giorno.
Ho pensato di non raccontare la solita storia, perché c’è una romanza di Cilea, che dice: “è la solita storia del pastore, – il povero ragazzo – volea raccontarla – e s’adormì”.
Stiamo scrivendo pagine di storia, che ci fanno solo tanto soffrire, per non dire altro termine.
Il punto cruciale, non è tanto il “diritto o lo zoppo”, ma chi andrà a San Vito. C’è chi dice: deve andare Nicolella; chi dice: c’è tutta una dinastia che si è installata saldamente in quella chiesa. Io stimo i due Don Giuseppe Nicolella e Mons. Regine, e non voglio entrare nella polemica.
“Don Giuseppe junior da ragazzo è stato in quella chiesa…”. Quello che ha fatto se lo troverà davanti a Dio. Noi siamo al servizio di Dio.
Però vorrei ricordare a quelli di S. Vito, che io da piccolo sono stato sempre in quella chiesa e voglio raccontarvi alcuni particolari.
Mons. Gazzella era il padrino di Cresima di mio padre e ci dava i confettini a “cannellini”. Quando era il mese in onore di S. Giuseppe, si celebrava la messa o si faceva la Benedizione eucaristica all’altare di S. Giuseppe, che sta a sinistra, entrando per la porta piccola. La mensa è abbastanza alta da terra, e mi aiutavano a prendere le ampolline.
Quando si faceva la benedizione, Si metteva il “velo omerale” sulle spalle del sacerdote e lo si allacciava con due lacciuoli. Siccome ero basso ed anche poco pratico, a volte i laccioli capitavano in alto, altre volte in basso. La buon’anima di Don Mario Amalfitano, che aiutava Mons. Mazzella, un giorno mi disse: Pasqualì, vedi che ti ho tagliato i lacciuoli; non ti preoccupare, come lo metti metti.
Quando ci insegnava il catechismo ci dicevano sempre : “bisogna inginocchiarsi quando si passa davanti alla casetta di Gesù…”.
Capitò una volta, che il sacerdote si dimenticò di togliere la chiave dal tabernacolo. Passando di là vidi che la custodia stava leggermente aperta e volli vedere com’era questa casetta, forse vedrò pure Gesù: la mensa era abbastanza alta per me, che ero un po’ piccolo di statura. Misi una sedia, poggiai le braccia sull’altare e spingendomi in alto, stavo arrotolato sulla mensa, pronto per aprire di più la porticina del Tabernacolo, quando mi sento arrivare uno schiaffone in faccia, che mi fece veramente male.
Non piansi, perché sapevo di aver sbagliato, ma pensai soltanto: che mani lunghe ha Gesù. In realtà era stato mio fratello Peppino a dare un po’ di colore e di riscaldamento alla mia faccia.
Sia mio fratello Raffaele, che Peppino, frequentavano anch’essi S. Vito e, Peppino, che aveva una bella voce potente di tenore drammatico, cantava anche la Via Crucis, che era riservata soltanto ai giovani, e ne erano tanti.
Quando ho fatto la Prima Comunione, mi sono inginocchiato, dove attualmente c’è l’ambone, per leggere le letture e il vangelo.
Quando venne Don Pietro Mascolo come parroco, io e mio fratello Raffaele venimmo scelti per cantare le letture dell’Ufficio del S. Natale e ci rimase impressa nella mente questa frase: …in terra Zabulon et in terra Neftali e Don Pietro scherzosamente ci chiamava con questi nomi, qualche volta.
Tutto il triduo Pasquale stavamo là a cantare.
Si cantava in latino l’Ufficio delle tenebre. C’era un triangolo con tredici candele sopra.
Man mano che si cantava questo salmo finale, di spegneva una candela, per simboleggiare la fuga degli apostoli.
Restava solo la candela in alto, al centro del triangolo, per significare che Gesù fu abbandonato da tutti.
A questo punto, di faceva il terremoto, con un po’ di fracasso. Andando in chiesa, vicino all’orto di Milone, notammo che avevano tagliate le palme e c’era a terra quei capoccioni che agganciavano le palme al tronco.
Pensammo: ci potranno servire: li portammo in chiesa e di nascosto di mettemmo sotto i mobili in sagrestia.
Don Pietro diede ordine Don Morettino di non far troppo rumore al momento del terremoto. Chiuse la porta della sagrestia, dietro all’altare ed era sicuro così dei fatti suoi. Appena Don Morettino fece il primo rumore sul primo scalino dell’altare, tirammo fuori quei tronchetti ed altro che terremoto….
Fuggimmo subito via sentendo dietro di noi le amare espressioni di Don Pietro: Ascari, beduini, zebbledei, ecc.
Quando si vendemmiava e si pigiava l’uva, La Parrocchia di S. Vito mandava in giro per le cantine un uomo, chiamato “Papasist’”, che abitava alla Via Vecchia, un imbianchino, per raccogliere il mosto e lo depositava nella nostra cantina.
Papà se ne prendeva cura, fino a che si vendeva come vino. Ogni anno erano circa tre “carrati” ed un paio di “quartaruoli”. Mio padre non si è mai preso un bicchier di vino, da quelle botti né un soldo per la manutenzione.
I miei nonni materni “Zì Rusina e Pasquale Coppa”, abitavano vicino alla chiesa di S. Vito dove c’è il giardinetto.
Dove stavano quelli di S. Vito allora?
Oggi mi si viene a dire che io non ci appartengo. Penso di averne più diritto degli altri e vi ho detto il perché.
L’ho scritto perché, quando poco tempo fa, uscì un articolo, che forse io sarei andato a S. Vito, alcuni minacciarono fuoco e fiamme. State tranquilli, che non ho nessun pensiero per la mente.
Ho scritto per farvi sapere come sono andate le cose e qual’è stata la mia infanzia in S. Vito. Quando, in uno degli anniversari di S. Vito, per la prima volta lo si portò per mare, il mare era agitato, e se non fosse stato per “Pistone” a frenare la statua sul traghetto, forse l’avremmo raccolta sotto le onde, vicino agli scogli delle Cammarate. Dov’erano questi grandi, perché io non ne abbia diritto! Non vi preoccupate.
Oggi tutti ci scacciano, perché siamo vecchi, quasi come tante volte si scostano i piccolini unicamente perché, dalle parti posteriori, suonando la tromba ripetutamente, con la conseguente emissione di aria, che non sa di profumati incensi, si potrebbe danneggiare le loro suonate con i flauti.
Cari amici, il tempo passa per tutti e velocemente, e ciò che oggi è mattino, sarà presto per tutti malinconico tramonto.
E’ cosa buona vedere i giovani accanto ai vecchi, per la loro saggezza e per quanto hanno ancora da insegnare. Se non abbiamo avuto fortuna, è perché il nostro tempo lo abbiamo dedicato al lavoro e non a lustrar le scarpe, per guadagnarci un pezzo di pane, che sa di umiliante anelito di gloria.
Oggi ci sentiamo grandi, perché siamo come edera attaccata ad un altissimo albero di Pino, ma l’edera ti circonda e ti strozza. Spero che un giorno non abbiate a cantare una bella ma melanconica canzone “addio sogni di gloria,- addio , castelli in aria… guardo con sordo rancore la mia scrivania – faccio una macchia d’inchiostro… Mi treman le dita…. Addio, sogni di gioventù, perché, perché non ritornate più”.
Sono cinquantanove anni che sono parroco a San Michele. Nessuno mai si è preoccupato di offrirmi una chiesa più titolata, perché nessuno ha voluto mai venirci in quanto non è Basilico, ma prezzemolo.
Ci sono venuto per lavorare senza pensare ad interesse alcuno.
A me interessa ciò che io ho dato alla chiesa, ai miei fedeli e il titolo più bello e che mi fa onore e sentire dagli uomini di oggi e ragazzi di ieri “portiamo nel cuore un bellissimo ricordo della nostra infanzia in questa chiesa”.
Cari monteronesi, non vi preoccupate, qua nessuno ci vuol venire perché non è una chiesa di fama, e questa mancanza ‘e famm’ non produce neppure appetito.
Io non vi abbandonerò, lo spero, fino a quando non raccoglierò in un guizzo di luce il mio ultimo sorriso per lasciarvi il ricordo del mio lavoro e del mio amore per voi.
Tanti anni e tanti ricordi non si distruggono in un istante.
Le lotte sono come le onde, che ho sempre sfidato, anche nel mio primo viaggio come cappellano supplente, sulle navi di crociera e come quando ho fatto tre salvataggi, durante la tempesta.
E’ cosa buona scrivere pagine di storia che esaltano e che conquistano, che fatue foglie che accartoccia ed ingiallisce il tempo, facile preda del furor del vento.
E’ cosa buona lasciare dietro di te una scia di profumi che attirano, per leggere nei cuori il ricordo costante del dono di una cuore, spremuto per amare i suoi, che la fatua gloria di memorie, impressa nella polvere di un fluttuante deserto, che distrugge il vento.
Lasciamo negli armadi lo splendore degli abiti imperiali, e le gonfie penne del pavone, per contemplare i calli nelle mani indurite di chi lavora, alzando una pane al cielo, che lo indora e ti fa sentire un canto: “Questo è il mio corpo”, questo è quel che conta: andarsene dal posto del tuo lavoro o della tua vita, con il raggio di quel pane, che è pan di vita, cantando non amare canzoni dell’ addio, ma “o sole mio – sta ‘nfronte a tte”.
Portate mei vostri occhi il raggio di quel sole che non tramonta, ma che canta ognora: arrivederci in cielo. A che servono le guerre, che ci stanno dilaniando? A creare effimeri
Regni dell’io comando, pronti a schiacciare chiunque ergesi a consigliare il giusto; regni dove domina la legge dell’egoismo e del sopruso, e mai spunta un raggio di compassione o di collaborazione; guerre che lasciano profonde ferite, che non sana il tempo; guerre che lasciano infiniti rancori, aprendo solchi profonde per tante bare e seminando odio nei cuori e tanta miseria nei solchi dei campi; sfamando pochi e affamando molti; lasciando le tavole vuote e tante case senza briciole d’ amore.
A che serve questa guerra?
Siamo in Quaresima, pensiamo a Chi è morto per noi dicendo: perdona loro, perché non sanno quel che fanno, ricordandoci che siamo al suo servizio e quindi cerchiamo di pensare a quanti si stanno allontanando o raffreddando ed hanno bisogno di esempi di fede e di pace, e di profonde unioni, più di cavalli veloci, attaccati al carro della gloria.
Ogni guerra lascia tante vittime e tanti figli senza padre o madre. Le nostre guerre saranno come onde che travolgono e sfasciano le barche contro gli scogli.
Mentre sarebbe più bello cantare: “passa la nave mia – come una bianca vela…” Anche Aida canta: “Ritorna vincitore” e poi sente il rimorso: vincitor del padre mio, di chi impugna le armi per me per ridonarmi una patria.
Forse un giorno, seduti per ammirare il tramonto, sentiremo in noi il rimorso: Potevo essere un raggio di sole; sono soltanto il buio della notte, che avvolge l’universo. Ricordiamoci di essere sacerdoti del Dio Altissimo e che a Lui dovremo rendere conto. Spiegate la vela al vento dell’amore e non dei fatui e funesti allori.
La Pasqua è vicina. Non seminiamo odi, ma cessiamo con queste polemiche. Nella Cavalleria Rusticana, domandano ad Alfio: “E’ Pasqua, in chiesa non vai?” ed egli risponde: “io me ne vado (ite = andate voi altri in chiesa). Santuzza augura a Turiddu: “a te la mala Pasqua” ed egli risponde “dell’ira tua io non mi curo”.
Poi Turiddu muore nel duello. Chi sarà Turiddu in questa sfida?
Un giorno la penna non avrà più inchiostro, la mente non avrà più parole, il cuore non avrà più amore. Non portiamo pesi e responsabilità sulle nostre coscienze. La gente ha bisogno di fede e cambiamenti di coscienze e non colpi di nuvole, che mutano aspetto al cangiar del vento.

Don Pasquale Sferratore

2 COMMENTS

  1. Mi sembra anche giusto.
    Non è possibile che questi ragazzetti definiti preti,che vengono sfornati a go go dalla setta dei focolarini,guidati dal pappone Carletto,sotto la sottana vescovile, che facendo danni in tutte le parti dell isola,non per ultimo lo scandalo di Fiaiano,che il vescovato ha tentato di insabbiare tutto,si vogliono appropiare anche San Vito!

    • Purtroppo ci provano, e spesso ci riescono, come è successo a Casamicciola alla “Maddalena”, anche grazie alla famigerata politica locale. Non dimentichiamoci mai di quello che successe a Don Vincenzo Avallone! Ed agli spostamenti di prelati che ne conseguirono e che toccarono 5/6 chiese tra Casamicciola, Lacco Ameno e Barano…
      Nemmeno il Buon Mons. F. Strofaldi riuscì a porvi rimedio, e penso che nemmeno, stavolta, l’attuale Mons. Lagnese potrà metterci una toppa. Il potere è il potere, la Fede un optional.

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