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sabato, Aprile 20, 2024

“Abbiamo cacciato i fetenti: ecco le chiavi”, la storia di Vincenzo Cap’ e fierro

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(ovvero di come nonno Capodiferro nel 1946 incendió l’Esattoria comunale)

 

L’avv. Lello Montuori nel 2000 raccolse alcune testimonianze riguardo Vincezo Ferrandino Cap’  e fierro, di sicuro una tra le figure più importanti della società isolana di un passato non troppo lontano.

Oggi, a distanza di tanti anni, l’avv. Montuori ha ricondiviso con tutti, iun racconto molto particolare. Eccolo.

“Fu un giorno da leone – scrive Montuori – quello dei primi mesi del 1946 per VINCENZO Ferrandino Cap’ e fierro.
Uno di quei pochi giorni della sua vita in cui non fu da solo a protestare, con tutta la passione e lo sdegno di cui era capace, contro ciò che riteneva un’ingiustizia.
Un grosso furgone, uno dei pochi in circolazione sull’isola che ancora piangeva i morti della guerra e nascondeva dignitosamente la miseria, aveva percorso la sera prima le strade del Comune di Barano restituito alla sua autonomia dal Regio Decreto del 21 agosto 1945 dopo la parentesi del Comune Unico.
A bordo di quel furgone, la voce possente di Capodiferro dava appuntamento a tutti i Baranesi per l’indomani in Piazza San Rocco.
Era accaduto che l’ E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza) aveva distribuito agli ischitani ex combattenti 1000 lire per i servigi resi alla Patria durante gli anni della guerra. Ma i soldi erano finiti.
L’ E.C.A. d’altronde esisteva solo nel Comune di Ischia e non anche negli altri Comuni soppressi durante il periodo di Comune Unico.
Così gli ex combattenti di Barano non avevano ricevuto nemmeno una lira.
Alla delusione per il mancato riconoscimento delle famose mille lire che avrebbero consentito a tanti Baranesi di imbandire la tavola per qualche tempo, si aggiungeva il diffuso malcontento di tanta gente stremata dalle ristrettezze della guerra e vessata dai balzelli più iniqui.
Basti pensare che tra tasse di famiglia, dazio-consumo e imposta fondiaria, a molte famiglie non restava di che vivere.
Proprio in quegli anni difficili del secondo dopoguerra, molte case rurali furono vendute all’asta pubblica per debiti da imposte, dopo che gli implacabili esattori avevano pignorato finanche le spalliere dei letti matrimoniali.
VINCENZO, figlio di Pietro e Cap’e fierro e di Adriana Di Meglio
(e ‘ndriana) proveniva da Porto d’Ischia ma aveva appena sposato Maria una ragazza cresciuta sulla Cesa con gli zii paterni, il Parroco di Piedimonte Don VINCENZO Buono e la sorella Luisa. Sua madre Chiara Stella D’Arco sorella del futuro Vescovo di Castellammare Agostino, aveva acconsentito che la sua primogenita Maria fosse cresciuta dalla sorella nubile di suo marito ed educata dal fratello Parroco che viveva con lei nella grande casa sulla Cesa.
Qui si era trasferito dopo il matrimonio con Maria, VINCENZO Cap’e fierro.
I traffici di merci sul mare, soprattutto dalla zona di Castellammare, gli erano valsi una certa agiatezza, nel senso che
– come diceva lui- le derrate di generi alimentari trasportate sulle barche di famiglia, non gli avevano fatto soffrire mai la fame anche nei mesi più difficili della Seconda Guerra mondiale. Ma nemmeno il relativo benessere della moglie che aveva le vigne e i terreni coltivati ed alla quale non mancavano mezzi di sussistenza con un Parroco in famiglia, riuscivano a distoglierlo dall’iniquità dei balzelli e dall’odio profondo verso gli esattori, i quali erano costretti ad anticipare allo Stato le somme da riscuotere ed erano feroci nell’esigere con puntualità i pagamenti per evitare di rimetterci di tasca propria.
Vincenzo Capodiferro non era nuovo a prendersi a cuore certe cause. Sempre a modo suo e anche quando il torto non era stato fatto a lui.
Un grosso corteo di uomini e donne arrabbiati e delusi alla cui testa subito si posero VINCENZO Capodiferro e Giovanni Cenatiempo di Fiaiano detto u’Turco, mosse dalle frazioni più popolose di Barano verso piazza San Rocco e da lì verso l’esattoria comunale. Don Raffaele Buono l’esattore e la sua famiglia nulla poterono contro la folla inferocita che divelto il portone di ingresso del palazzo in cui viveva, cominció a buttare in strada fascicoli di carte, suppellettili, documenti, registri debitamente compilati, per darli alle fiamme. E il fuoco subito appiccato divorò quelle carte per le quali tante lacrime aveva versato il genuino popolo di Barano. Quindi la folla si riversò nel Municipio per scacciare gli impiegati pure odiatissimi per la naturale diffidenza che ispiravano alla gente del popolo. I più facinorosi volevano appiccare il fuoco anche alla Casa comunale ma pare che VINCENZO Capodiferro fu tra quelli che si opposero. Era cosciente infatti che un popolo non ha futuro senza memoria del proprio passato. E l’incendio dei registri dell’anagrafe avrebbe privato Barano di una parte importante della sua storia. Tenendo in pugno le chiavi del Municipio in segno di vittoria, VINCENZO Capodiferro si avvicinò all’Avv. Giovanni Di Meglio Commissario Prefettizio accorso per cercare di sedare quegli animi infervorati e avvicinatosi gliele consegnò, dicendo a gran voce <<Abbiamo cacciato i fetenti dal Municipio: riprendetevi le chiavi>>.
Il corteo dei rivoltosi -appreso dalla viva voce di Giovanni Di Meglio in un appassionato intervento su un banchetto improvvisato, che a Barano non c’erano soldi per distribuire le famose 1000 lire poichè l’unica sede dell’E.C.A. era nel Comune di Ischia, al grido di <<allora iammo a Ischia>> si diresse verso il Comune capoluogo.
Lungo il tragitto per Ischia, in località Mortito il corteo si imbattè nel dott. Benedetto Di Meglio, allora giovane medico, che subitó si unì ai dimostranti ponendosi con gli altri alla guida della rivolta. Verso la Molara si trovavano ricoveri di armi del periodo bellico presidiate ancora dai militari e alcuni facinorosi proposero di prendere le armi e poi proseguire verso Ischia per far valere armati le proprie ragioni.
Fu provvidenziale allora l’intervento di Scipione di Meglio -all’epoca addetto militare alla custodia dei depositi- che riuscì a dissuadere i rivoltosi dal prendere le armi, scongiurando così il pericolo che una sommossa di popolo si trasformasse in una rivoluzione armata che avrebbe avuto più gravi conseguenze.
Proseguendo verso Ischia nei pressi di Sant’Antuono sorgeva la casa del dott. Frangipane veterinario. Anche questa casa fu presa d’assalto dalla folla e i veterinario si diede alla fuga per sottrarsi alla rabbia del popolo cui era inviso per la requisizione del grasso ottenuto dalla macellazione dei maiali, provvedimento iniquo disposto dal Governo in tempo di guerra. Di lì il corteo si mosse verso la centrale elettrica ancora presidiata dagli inglesi che avevano mantenuto sull’isola alcune postazioni fra le quali la più importante era senz’altro il deposito di carburanti nei pressi della Pagoda del Porto di Ischia.
Il Comandante inglese, prontamente avvisato del tumulto, fece posizionare le mitragliatrici a difesa della centrale elettrica e dei depositi di carburante.
Ma era destino che quella sommossa di popolo non finisse in un bagno di sangue. La folla in tumulto, infatti, giunta nei pressi di Corso Vittoria Colonna di fronte a dove oggi sorge il bar La dolce sosta, si scagliò contro l’Esattoria comunale di Ischia e anche lì -come era accaduto a Barano- registri, documenti e suppellettili furono gettate dalle finestre sulla strada e poi dati alle fiamme.
Poi il tumulto si spense.
L’ E.C.A. sull’onda di quei gravi fatti e temendone di peggiori, provvide a contrarre un prestito per garantire a tutti gli ex combattenti dell’isola le famose mille lire che erano state la scintilla del tumulto. Un risultato era stato raggiunto!
VINCENZO Capodiferro, Giovanni Cenatiempo detto il Turco, il medico Benedetto Di Meglio, su rapporto dei Carabinieri, che non avevano osato intervenire nel corso del tumulto per l’esiguità del loro numero rispetto alla moltitudine della folla, furono tradotti poco dopo nel Carcere di Poggioreale e giudicati dalla Corte d’Assise di Napoli. Malgrado il carcere che durò per lui alcuni mesi, proprio mentre veniva alla luce la sua primogenita Adriana -mia madre- VINCENZO Capodiferro è stato fino alla fine dei suoi giorni caparbiamente fiero di quell’impresa che lui capeggiò nella convinzione di stare dalla parte giusta con il popolo e contro chi -ieri come oggi- voleva tenerlo in uno stato di sudditanza e di sottomissione.

Post Scriptum: ho raccolto queste notizie dalla viva voce dell’Avv. Giovanni di Meglio pochi giorni dopo la scomparsa di nonno Capodiferro avvenuta il 3 Settembre del 2000 a 87 anni. Capodiferro ne parlava spesso, a modo suo.
Domenico Di Meglio ne pubblicó il racconto sull’ edizione de Il Golfo del 20 Settembre del 2000.”

1 COMMENT

  1. Bellissimo articolo. Un pò di storia non fa mai male, soprattutto perchè “un popolo non ha futuro se non ha coscienza del suo passato”.
    Splendide parole.

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